"UNA
RIVOLUZIONE CULTURALE NELL'UNIVERSITA' E NELLA SCUOLA"
incontro organizzato da "Rivoluzione Liberale" e
da "Quale impresa" dei giovani imprenditori
di Confindustria l'11 aprile 2001 nella Sala Leonina della Residenza di
Ripetta - via di Ripetta, 231 ROMA
UNA NUOVA
ORGANIZZAZIONE DELLA DOCENZA UNIVERSITARIA
Testo della relazione tenuta da ALBERTO PAGLIARINI
L'Università italiana, ancorché vanti la presenza
di isole di eccellenza in ciascuna area scientifica, è, nel suo insieme, ormai
da tempo, in una palude dalla quale non è
riuscita e non riuscirà a
uscirne, pur essendo stata interessata in questi ultimi anni da
varie leggi, leggine e dalle riforme
sull'autonomia, sui concorsi, sugli ordinamenti didattici. Sono state
leggi e riforme che hanno, nella migliore delle ipotesi, tappato solo qualche
buco, non solo perché non accompagnate da adeguati finanziamenti, ma
soprattutto perché hanno lasciato aperta la grande falla dello statalismo,
male non più oscuro che divora e ingessa l'Università. E’ stato il responsabile del
fallimento di ogni riforma e, verosimilmente, potrà esserlo anche per quella
sugli ordinamenti didattici che allinea l'Italia all'Europa, secondo gli accordi
siglati a Parigi e a Bologna.
Che l’Università sia ammalata di statalismo
lo hanno detto da anni, a chiare lettere o con sfumature variegate,
diverse personalità del mondo accademico. Mi limito a citarne alcuni:
Dario Antiseri (Il Sole 24 Ore, gennaio 98), Tullio Regge (Le Scienze, gennaio
98), Paolo Pombeni (Il Sole 24 Ore, maggio 98) e più recentemente Francesco Alberoni (Corriere della
Sera 21/3/2001).
Lo statalismo è il male
che non consente la concorrenzialità e la competizione all'interno del sistema
universitario. Esso poggia su due
specifici strumenti imposti per legge: il "valore legale del titolo di studio" e il "ruolo
organico nazionale dei professori universitari". Entrambi, messi
insieme, esprimono la negazione
assoluta di ogni forma di competitività. Ne
consegue che un rinnovamento radicale e
totale della Università italiana si potrà realizzare, seriamente
e compiutamente, solo con l'eliminazione del "valore legale del titolo di studio" e l'eliminazione del "ruolo
organico nazionale dei professori universitari".
Attenzione, però! Ciò non significa
privatizzare l'Università
italiana, perché essa deve continuare, comunque, a svolgere una "funzione pubblica" insieme alle
Università libere e private. Dovrà,
perciò, restare fermo l'obbligo
dello Stato a finanziare gran parte
dei bisogni degli Atenei pubblici e a sovvenzionare quelli privati. Il
finanziamento, però, dovrà essere
fatto in maniera molto più consistente e mirata
di quanto si è fatto sinora. Per il finanziamento occorrerà
utilizzare, non solo gli abusati parametri
della popolazione studentesca, del numero dei laureati
e del numero dei docenti, parametri
che vanno, comunque, opportunamente
ripesati, ma anche gli indici di una
adeguata e seria valutazione della
qualità e quantità della ricerca di base ed applicata prodotta e della più o
meno buona didattica offerta dagli Atenei e dai singoli Corsi di Studio. La
didattica, in particolare, dovrà
essere valutata prendendo a riferimento
i giudizi espressi dagli studenti e la capacità dei Corsi di Studio di
aggiornare i curricula di formazione delle professioni, in modo da essere sempre
in linea con l'evoluzione del sapere e dello sviluppo tecnologico e con le
mutevoli richieste del libero mercato nazionale e internazionale delle
professioni. Occorrerà, altresì, tenere nel debito conto, sempre ai fini dei
finanziamenti da erogare, la capacità di inserimento nel mondo del lavoro dei
profili professionali prodotti da
ciascun Ateneo e da ciascun Corso
di Studio, monitorando le esperienze e le vicende lavorative dei laureati, per
almeno un biennio dalla laurea. Tutto ciò non è una novità. E’ quanto, da
anni, si fa in altri Paesi, in particolare in quelli del mondo anglosassone..
E’ giunta l’ora che si faccia anche da noi.
Il sistema Università liberato dai numerosi orpelli connessi con il “valore
legale del titolo di studio” e con il
“ruolo organico nazionale dei professori universitari” potrebbe
rapidamente fare un gran salto di qualità.
Intanto è evidente che si
realizzerebbe, in modo
totale e pieno, quella autonomia degli Atenei, costituzionalmente
prevista, da più lustri dibattuta, oggi
solo in parte concessa. Gli Atenei avrebbero, con la piena autonomia,
la possibilità di realizzare un circolo virtuoso di efficace ed
efficiente produttività. Infatti,
utilizzando al meglio le risorse finanziarie disponibili, l'Ateneo avrebbe tutto
l’interesse a dotarsi di un corpo docente tale da
accrescerne il prestigio, sia per realizzare una buona produzione
scientifica, sia per
offrire un servizio
didattico di alto profilo, poiché questi dovrebbero essere i più importanti
requisiti necessari e sufficienti a garantire e ad
accrescere i futuri finanziamenti allo stesso Ateneo e, quindi, alle
Facoltà, ai Dipartimenti e ai Corsi di Studio. I maggiori finanziamenti pubblici e privati
conseguenti al prestigio e alla produttività riconosciuta, servirebbero per
potenziare ulteriormente le strutture e i servizi offerti. Il circolo virtuoso
è chiuso ed iterabile. "Autonomia", quindi,
intesa come organizzazione autonoma dell'Ateneo che punta alla qualità
dell'offerta per cercare ed assicurarsi consistenti finanziamenti e non solo
come gestione locale dei finanziamenti statali fissati per legge.
Se ne avvantaggerebbero
enormemente, sia l'organizzazione e l'incentivazione della ricerca in ogni
Ateneo e, quindi, in tutto il Paese, sia i profili professionali e i servizi
da offrire agli studenti utilizzando una didattica espletata non solo per
il dovere di far lezione (oggi neppure da tutti sentito), ma anche per il
diritto (oggi negletto) dello
studente-discente a ricevere un aggiornato apprendimento e una adeguata
formazione professionale attraverso un
efficace insegnamento su specifici curricula totalmente e autonomamente fissati
in ogni Ateneo da ciascun Corso di Studio. La scelta dell'Ateneo da parte degli
studenti sarebbe fortemente condizionata dai livelli di efficienza ed efficacia
offerti.
Per far ciò l'Ateneo sarebbe responsabilmente costretto a chiamare
docenti sicuramente validi e dotati di un prestigio, più o meno alto,
riconosciuto a livello nazionale e/o internazionale. I docenti dovrebbero essere
assunti inizialmente a
contratto a tempo determinato con precisi diritti ed obblighi,
rinnovabile con obblighi e diritti
contrattuali anche modificati o,
per particolari docenti, con un
contratto a tempo indeterminato, in
relazione alle strategie e agli obiettivi fissati da ciascun Ateneo e da ciascun
Corso di Studio. Un rapporto, quindi, strettamente
privatistico tra docente ed Ateneo; fruttuoso
per l'Ateneo e incentivante per il docente meritevole, sia
in termini economici correlati al prestigio del docente, ai compiti
assegnati e ai risultati conseguiti, sia
in termini di disponibilità di
mezzi, apparecchiature, laboratori e personale necessari
per organizzare e portare a compimento ricerche,
e poter offrire una efficace ed elevata didattica, con il risultato di
acquisire ulteriore
prestigio e, quindi, ricadute finanziarie più consistenti, per il circolo
virtuoso predetto.
Di contro, gli orpelli dello stato giuridico statale: progressione
economica solo per anzianità, concorsi per l’accesso al ruolo e il passaggio
di fascia, quasi sempre con vincitori predeterminati, un anacronistico fuori ruolo e una età pensionabile solo
anagrafica, indipendente dalle effettive possibilità fisiche e intellettive di
ciascun soggetto che potrebbe,
invece, essere fortemente
produttivo anche dopo gli ottanta anni e fortemente improduttivo anche prima dei
quaranta anni, insieme a quant'altro
è proprio di uno stato giuridico statale,
sono sin qui serviti solo
per ingessare la docenza universitaria e
non consentire alcuna valutazione, né
seria e neppure addomesticata, del
singolo docente e delle strutture. Basti pensare al disposto del D.P.R. 382/80,
in forza del quale ogni docente aveva ed ha l'obbligo di presentare alla Facoltà,
ogni triennio, una relazione
sull'attività svolta. In molte sedi non si è mai ottemperato a quest'obbligo,
in poche si è adempiuto ma la Facoltà si è semplicemente limitata a prenderne
formalmente atto, chiudendo in un cassetto le relazioni. Il sistema
ha invece consentito: una diffusa e deleteria autoreferenzialità, la
proliferazione di discipline
nuove solo nel nome
ma vecchie per contenuti, con l’evidente e
unico scopo di poter accrescere il numero delle cattedre e il potere dei singoli
e la possibilità di consentire la sistemazione di
soggetti non sempre adatti a realizzare una buona docenza. Il sistema ha
consentito e consente un indiscriminato, totalmente
incontrollato e fortemente lucroso esercizio di libera attività
professionale, molto spesso a scapito della didattica e della ricerca.
Infine, ha
tacitamente consentito e consente facili
accordi con scambio di favori tra sedi, scuole,
gruppi di potere e un diffuso
nepotismo, che abbraccia ormai, in modo sfacciatamente scandaloso,
tutte le Facoltà. Tutto ciò
è reso possibile dalla mancanza di ogni forma di responsabilità immediata e
soprattutto futura sulla validità delle scelte operate dalle Facoltà, dai
Dipartimenti, dai Corsi di Studio, dai gruppi di potere che vi operano. Con una
docenza così organizzata, nessuno risponde di niente. Non sempre è garantito
il principio delle carriere aperte alle capacità, quindi al merito.
Principio fissato sin dal 1789 nella "Dichiarazione dei Diritti
dell'Uomo e del Cittadino", che dovrebbe valere in qualsiasi campo, in
qualsiasi istituzione, quindi, a maggior ragione, nell'Università, dove le
baronie, le tessere di partito, il ceto, il censo, i legami sociali non
dovrebbero avere dimora, essendo l'Università la più alta istituzione
culturale del Paese, e, come tale, dovendo essere non solo informativa e
formativa per le generazioni future, ma anche educativa.
Orbene, tutto ciò non potrà mai essere eliminato e neppure ridotto a
livelli fisiologicamente accettabili, rinnovando lo Stato Giuridico o
modificando ancora una volta, a distanza di pochissimi anni, la legge che
regolamenta i concorsi, rivelatasi peggiore della precedente. Per quasi venti
anni si sono avuti i maxi concorsi banditi dal Ministero, senza alcun rispetto
della periodicità fissata dalla legge, ma con l’inevitabile enorme
contenzioso giudiziario conseguente agli scandali denunciati. In 18 anni si
sarebbero dovuti svolgere 9
concorsi da espletare con cadenza
biennale, ne sono stati banditi appena 3. Con la nuova legge 210 del 1998 si
sono invece avuti una pletora di
concorsi banditi dagli
Atenei, che hanno prodotto ciascuno una
terna di idonei, uno dei quali, in modo scontato, appartiene all’Ateneo
banditore. Risultato: in 12 mesi sono stati posti in cattedra come
Ordinari o Associati tanti
professori quanti non sono stati messi nei precedenti 12 anni, ma con un
risultato sintomatico: oltre
il 95% dei nuovi professori sono rimasti nella sede dove già
svolgevano la loro attività di docenza. Ogni commento per una siffatta
cristallizzazione è scontato, mi
astengo dal farlo. Va invece rilevato che è il sistema dei concorsi in sé a
non funzionare, comunque regolamentato. Ancor peggio per i concorsi per
ricercatore universitario, nella maggior parte dei quali il vincitore è
predestinato o, addirittura, il concorso su un posto ha
un solo concorrente. L'Università, ormai, è un concorsificio che
distrae dalla didattica e dalla ricerca molti suoi docenti impegnandone
diversamente le energie, con costi, peraltro, enormi. Tutto ciò si
potrebbe evitare, lasciando alle
Sedi, alle Facoltà, ai Dipartimenti e ai Corsi di Studio, la
autonomia di decidere le
procedure per la cooptazione. La scelta operata avrebbe costi e tempi
notevolmente inferiori, ne guadagnerebbe in trasparenza
e comporterebbe la
responsabilità piena e diretta dei soggetti e delle strutture che la hanno
determinata.
Pertanto, per sanare il sistema non resta che andare alla fonte dei suoi
mali: lo statalismo. Per estirparlo
basta eliminare i suoi strumenti legislativi: il “valore legale del titolo di studio” e il “ruolo organico nazionale dei professori universitari”. Il primo va
sostituito, usando una felice espressione di Paolo Pombeni, con il “valore
reale del titolo di studio”, cioè
con il contenuto culturale e formativo professionale realmente acquisito dal
laureato, il secondo va
sostituito con un sistema di contratti a termine o a tempo indeterminato, con
obblighi e diritti ben precisi, diversi per ciascun docente e diversamente
retribuiti, fissati autonomamente da ciascun Ateneo.
Con l’eliminazione del “ruolo
organico nazionale dei professori universitari” si eviterebbe, peraltro,
l’incombente e non improbabile rischio di veder contrattualizzata
la categoria dei docenti universitari. Le OO.SS
da tempo insistono e premono per la contrattualizzazione del comparto
della docenza universitaria. Anche
questo è un grosso e deleterio pericolo per l’Università italiana, che va
scongiurato. Ha in sé, infatti, i germi dell’appiattimento e della negazione
del merito soggettivo, con la conseguente nefasta uguaglianza di diritti, di
doveri e di retribuzione rivelatasi negativa in ogni comparto del pubblico
impiego e sicuramente incompatibile
in quello della docenza universitaria, perchè ogni docente
ha un suo curriculum, un suo prestigio, una sua personalità scientifica
e didattica, una sua libertà di far ricerca e insegnamento costituzionalmente
garantita. Sono proprio queste libertà, questi elementi soggettivi
caratterizzanti il singolo docente che
non possono essere imbrigliati con una contrattualizzazione di comparto. Sarebbe
veramente un controsenso, si avrebbe sicuramente la morte per soffocamento
dell’Università. D’altronde basta guardarsi attorno in Europa e fuori
d’Europa per rendersi conto che in nessun Paese la
docenza universitaria, nel suo insieme,
è contrattualizzata.
Con una siffatta organizzazione della docenza le riforme in atto e quelle
da farsi potrebbero essere più facilmente e rapidamente
attuate. Si realizzerebbe,
così, un modello di Università
adeguato ad affrontare la inevitabile sfida concorrenziale, a livello europeo e
mondiale, a cui l'Università italiana non può e non potrà sottrarsi.
E’ realizzabile siffatta organizzazione delle docenza? No, in tempi
brevi! salvo un improbabile miracolo politico.
Sì, in tempi sperabilmente medi. Occorrerà
che si maturino i tempi e si creino le condizioni e le convinzioni
per superare la forte reazione di rigetto di gran parte dell’accademia,
restia a rinunciare allo Status, ai
consolidati privilegi e agli enormi interessi in gioco, e
anche per superare il presumibile veto delle organizzazioni e
associazioni sindacali. Ovviamente le condizioni e le convinzioni suddette si
potranno più facilmente creare salvaguardando
i diritti acquisiti di ciascun docente.
Occorrerà, perciò, consentire
l'opzionalità di scelta tra l'attuale stato giuridico e la nuova
organizzazione della docenza. Ognuno potrebbe valutare i vantaggi e la
convenienza di optare per la nuova organizzazione o rimanere con il vecchio
stato giuridico. Peraltro, i tempi per la messa a regime della nuova
organizzazione della docenza non sarebbero sicuramente lunghi, essendo
abbastanza alta l'età media degli attuali ordinari, degli associati e dei
ricercatori. Comunque, una lenta ma
inevitabile spinta verso siffatto modello ci verrà sicuramente
dalla UE. Per ora è importante parlarne.
E’ sufficiente
discuterne per
avviare qualche riflessione.
Una cosa
è certa : l’Università deve necessariamente essere rinnovata. Non può
ancora restare nella palude. Sarà compito della nuova legislatura affrontare e
risolvere la complessa questione della organizzazione della docenza
universitaria, prioritaria ed indispensabile per un serio rinnovamento. Poiché
nel Parlamento c'è stata e ci sarà
una forte presenza trasversale di professori universitari, che abbraccia
maggioranza e opposizione, occorrerà necessariamente formulare ed approvare,
prima lo schema a regime della nuova organizzazione della docenza e, solo
successivamente discutere ed approvare norme transitorie, per evitare che queste
ultime condizionino ed inquinino,
come sempre è stato, il nuovo schema a regime.
Per intanto ognuno dia il suo contributo di idee. La Associazione
culturale sindacale a cui appartengo, il CNU, in un recente
dibattito interno, non ha aprioristicamente escluso
lo schema di
organizzazione della docenza sopra esposto ma, ha ritenuto necessario prevedere
un percorso graduato nel tempo, strategicamente mirato a realizzarlo. In questa ottica il CNU
ha stilato un documento come base propositiva di discussione ed
ha promosso un primo utile confronto con altre organizzazioni sindacali
della docenza, con le forze
politiche dell'uno e dell'altro schieramento, con la CRUI, con il CNR e con il
MURST, tenutosi in questa stessa sala il 4 e 5 aprile scorso. Sono emerse
posizioni anche fortemente diversificate,
cosa d'altronde prevedibile, perché lo schema sopra esposto esprime e richiede
una autentica rivoluzione culturale nell'Università, una rivoluzione di sicura
impronta liberale.
Alberto Pagliarini
Già docente di Fisica Matematica nell'Università di Bari
Presidente onorario della sede di Bari del CNU
componente del Consiglio Direttivo
Nazionale del CNU (Comitato Nazionale Universitario)