Dal Corriere del Mezzogiorno, allegato al Corriere della Sera dell’8 gennaio 2005

 

Intervista a cura di PIERLUIGI SPAGNOLO

 

UNIVERSITA’

SENZA UNA SVOLTA ETICA LE RIFORME NON SERVONO

 

 <<Non si può certo pensare di impedire al figlio di un docente di seguire le orme del padre. Ma sarebbe da ipocriti non ammettere che in certi casi alcune parentele importanti consentono progressi molto più rapidi. Quello che serve davvero al mondo dell’università è un serio esame di coscienza, la capacità di mettersi in discussione anche sotto il profilo etico. Poi si potrà passare a parlare di leggi, di progetti di riforma e di ingegneria normativa. Ma la prima esigenza, la vera priorità, è che i docenti ripensino serenamente al proprio ruolo, al fragile meccanismo che hanno tra le mani e che rischiano di rovinare. Il mondo accademico si chiude sempre più spesso a riccio, divenendo simile ad una casta, ad una corporazione. E’ un mondo in cui non manca il fenomeno del nepotismo, che preclude tante opportunità ai giovani cervelli, che emigrano per le difficoltà di inserimento nell’apparato universitario>>. Ne è convinto Cosimo Damiano Fonseca, sacerdote e docente universitario dell’ateneo barese, con alle spalle una vita spesa al servizio del mondo accademico, in diversi atenei d’Italia, chiamato a commentare le provocazioni lanciate da Francesco Boccia, candidato alle primarie dell’Ulivo alla presidenza della Regione Puglia, sulle colonne del Corriere del Mezzogiorno.

Professor Fonseca, Boccia ha detto che in alcuni casi il peso del cognome permette “fulgide carriere” nell’ambiente universitario. Condivide?

<<Per verificarlo in maniera inequivocabile basterebbe fare una prosopografia, ovvero una lettura attenta dell’elenco dei docenti delle diverse facoltà. Ci si accorgerebbe di quanti casi di parentele ci sono. Un po’ tutta la cultura italiana si regge da sempre sul concetto di “tengo famiglia”. Eppure un modo per evitare che nell’università troppi figli lavorino al fianco dei padri ci sarebbe…>>.

A cosa si riferisce?

<<Da tempo ritengo che non si dovrebbe consentire di insegnare nel luogo in cui si è nati, in cui sono stati portati avanti gli studi, nello stesso ateneo in cui ci si è laureati. In parte servirebbe a evitare di trovare dipartimenti pieni di docenti e ricercatori che portano lo stesso cognome. Insegnare lontano dal proprio contesto non dovrebbe essere soltanto utile per limitare il nepotismo, ma una scelta di vita del docente>>.

In che senso?

<<Chi vuole dedicare la propria vita alla ricerca è bene che sappia viaggiare, che ami confrontarsi, scambiare conoscenze, respirare aria diversa da quella del contesto in cui è cresciuto. Tutto questo serve davvero alla formazione e alla maturazione. In Germania, per esempio, avviene così da tempo>>.

L’attuale sistema di reclutamento dei docenti, secondo lei, contribuisce alla diffusione di questo fenomeno?

<<Questo sistema finisce per permettere procedure poco chiare. Personalmente lo ritengo piuttosto iniquo. Non a caso almeno dieci anni fa, quando ero vicepresidente della Conferenza dei rettori, proposi di impostare il reclutamento seguendo due requisiti: i concorsi di selezione nazionali, cercando però di eliminare le lungaggini e le macchinosità, e la cooptazione per sedi. Si trattava di una proposta che avrebbe potuto selezionare ogni anno i docenti più validi in tutta Italia>>.

Ma cosa dovrebbe fare il mondo accademico italiano per cambiare questo malvezzo?

<<Interrogarsi seriamente sul fenomeno , e fare un onesto esame di coscienza. Prima di pensare a modificare il sistema universitario, o di decidere i criteri per il reclutamento dei docenti, sarebbe opportuno affrontare il proprio compito con animo onesto, fare una rivoluzione in campo etico. Senza ritenersi degli intoccabili, così come è accaduto di recente al momento di  riformare i programmi in vista dell’applicazione della riforma del 3 più 2>>.

Risulta che soltanto pochi docenti lo abbiano fatto.

<<Perché nessuno ha voluto fare un passo indietro, subire ridimensionamenti, tutti rigidi a difendere il proprio insegnamento come delle vestali irriducibili. Cosa ha comportato tutto questo? Che gli studenti sono stati costretti ad affrontare più materie, con gli stessi programmi, ma in un lasso di tempo più ristretto. Questo ha fatto sì che il numero dei giovani in regola si riducesse ulteriormente>>.

Ma la riforma del 3 più 2 non era nata con motivazioni opposte?

Infatti. Era stata concepita con la finalità di agevolare la diffusione della cultura di base, e per ridurre i tempi di sosta negli atenei. Ma alla fine gli studenti che risultano fuori corso sono aumentati. Per questo dico che sarebbe utile un esame di coscienza>>.

 

 

 *ASTERISCO

Ha ragione Fonseca. Ma  una rivoluzione etica  deve necessariamente essere preceduta da una autocritica puntuale, coscienziosa, spietata. Purtroppo i più non solo sono lontani dal farla, ma anche dal pensarla, e non  può neppure essere imposta per legge. Allora, non esiste davvero terapia alcuna che possa curare il male endemico che affligge l’università italiana? Nel Regno Unito è stata recentemente varata una legge che obbliga tutti gli uffici pubblici, nessuno escluso, a far conoscere tutto ciò che un qualsiasi cittadino vuole conoscere, senza eccezioni. E’ il “Freedom of information act “ che consente, a semplice richiesta, di rendere di dominio pubblico “l’operato” delle istituzioni e il “fare” degli amministratori pubblici, dei politici, dei funzionari.  Questo potrebbe essere, da noi,   un generatore dell’etica pubblica, perché costringerebbe tutti i soggetti pubblici a  modificare quei comportamenti privi di etica che sono la causa dei mali che affliggono non solo l’università, ma tutto l’apparato pubblico, amministrativo e sociale. In teoria una siffatta legge potrebbe costituire una valida terapia. Ma è pensabile possa essere varata? Realisticamente, no! Perché i primi ad essere condizionati sarebbero il Parlamento, i Ministeri, le Regioni, le Provincie, i Comuni, tutti gli Enti di qualsiasi tipo, i partiti politici, i sindacati, cioè  tutto il gran mondo politico-amministrativo-sociale che opera nel Paese. Purtroppo siamo ancora lontani da quella maturità e quel livello di democrazia nel quale l’interesse collettivo deve essere sempre prevalente rispetto a quello personale o corporativo. Occorre, per ora, che tante altre  autorevoli voci si uniscano al grido di allarme e al richiamo all’etica  già lanciato da alcuni, per sensibilizzare l’opinione pubblica e creare le condizioni necessarie ad avviare una rivoluzione etico-culturale nell’interesse di tutto il Paese.

Bari, 12 gennaio 2005

                                                                            Alberto Pagliarini