Quesito e risposta sulle diverse anime nell'universita'
quesito ricevuto il 7/8/07
Caro collega,
ho molto apprezzato la Tua di questi giorni, che analizza in maniera così
puntuale l'annosa questione retributiva (e funzionale) dei medici
universitari/medici ospedalieri.
Il problema dell'università è anche, e direi soprattutto, quello della
sperequazione tra
universitari-clinici e universitari, che non crea meno problemi. In realtà, il
problema è tra
diverse 'anime' che nell'università convivono. Le facoltà mediche, quelle
puramente scientifiche (scienze mmffnn, farmacia, bioscienze), che in pochi
casi vedono una significativa incidenza del tempo parziale', quelle giuridiche,
economiche e ingegneristiche, quelle umanistiche.
Evidente che la 'indennità di tempo pieno' non risolve il problema. Evidente
anche che
l'interesse a non creare situazioni che penalizzino la libera professione
blocca le iniziative che qualifichino e 'premino' a livello retributivo il
lavoro svolto all'interno dell'università. Ovvero: "...non me ne faccio
nulla di 1000 Euro in più al mese se ciò richiede la mia presenza per qualche
ora alla settimana in più".
Come uscire da quest'inghippo senza 'toccare tabù intoccabili' del NOSTRO
sistema universitario.
Sono peraltro convinto che questo problema sia una delle principali cause della
progressiva deriva del sistema stesso...
Il Tuo parere in merito sarà molto stimolante.
Ti ringrazio e Ti saluto cordialmente.
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx
-----------------------------------------------------------------------------------
risposta da me data il 9/9/07
caro collega
solo ora, a distanza di un mese, ho trovato il tempo per rispondere al tuo
quesito.
Il mio pensiero in merito l'ho già espresso in una
relazione tenuta a Roma nell'aprile 2001 dal titolo "Una rivoluzione
culturale nell'università" che puoi leggere sul solito sito dove sono
pubblicate le tabelle retributive
http://xoomer.alice.it/pagliarini_alberto
.
Ritengo utile, però, fare alcune considerazioni aggiuntive sulla questione
tempo pieno (TP) e tempo definito (TD) e sulla più generale organizzazione
dell'università italiana.
La duplice figura era stata ben posta dal DPR 382/80. La
presenza in parlamento di numerosi docenti universitari, in evidente conflitto
di interessi su questa questione, ha stravolto quella norma che non consentiva
al docente a TP alcuna attività professionale, oltre quella fatta direttamente
nell'ambito universitario, gestita dall'università.
Con successive norme è stata concessa ai docenti a TP la possibilità di
espletare qualsiasi attività professionale libera per conto di enti pubblici e
parapubblici, con esclusione solo di attività professionale libera per conto di
privati, quest'ultima possibile solo per i docenti a TD. Questa norma, fatta ad
hoc per privilegiare alcuni docenti a TD, ha stravolto l'organizzazione
dell'università e l'organico della docenza.
L'organico, perché gran parte dei docenti a TD, soprattutto quelli che
lavoravano molto con enti vari, passarono immediatamente a TP, continuando a
lavorare per gli enti e percependo in regalo una retribuzione quasi doppia
rispetto a quella che percepivano come docenti a TD. La percentuale dei docenti
a TD, molto forte, si ridusse drasticamente al 6 - 7% di tutto il corpo
docente. Sono rimasti a TD solo i docenti che esercitavano attività
professionale libera con i privati. L'organizzazione universitaria ne ha
risentito molto poiché una grossa percentuale di docenti a tempo definito,
abituati a stare poco nell'università e a dare poco agli studenti e
all'istituzione, passati a TP continuarono la loro impostazione di vita, in
gran parte dedita all'attività professionale, con in premio una retribuzione
quasi doppia. Ciò ha determinato, nel tempo, una immagine distorta del corpo
docente universitario nell'opinione pubblica convinta che: tutti i docenti non
lavorano per l'università e per gli studenti ma sono dediti solo al proprio
arricchimento. Il danno di immagine è stato notevole per i tanti docenti a TP
che erano e sono pienamente dediti solo ai compiti istituzionali. La
regolamentazione che consente ai docenti a TP l'espletamento di attività
professionale, previa autorizzazione del rettore e della facoltà, non è servita
a nulla, poiché la corporazione accademica, autoreferenziale e chiusa, non ha
mai negato ad alcuno una qualsiasi autorizzazione.
Questa questione insieme al tambureggiamento mediatico sugli scandali e sulla
parentopoli universitaria ha portato a zero la credibilità dell'istituzione
nell'opinione pubblica e anche in molti politici di qualsiasi colore, non docenti
universitari. Quali rimedi?
A mio avviso sono solo due.
1) Ripristinare le norme TP e TD della 382/80 rendendole ancora più rigorose e
aumentando la forbice retributiva tra TP e TD. Questa via sarebbe teoricamente
percorribile se ci fosse una precisa e forte volontà politica, ma è difficile
da attuare perché intacca interessi enormi diffusi nell'università, sostenuti
da una schiera di parlamentari universitari.
2) Una riforma radicale organica dell'università italiana, quella da me prospettata nella relazione sopra citata che, lasciando inalterati lo stato giuridico, i diritti, i doveri e la progressione economica dei docenti in servizio al varo della riforma, tutelando i diritti acquisiti, introduca per i nuovi docenti il rapporto di lavoro a contratto individuale tra università e docente. Nel contratto si fissano i doveri tutti e, in base alle prestazioni ed impegni previsti, al prestigio locale, nazionale, internazionale del docente, alla capacità di procurare finanziamenti, si fissa la retribuzione di ciascun docente, lasciando piena autonomia alle università per il reclutamento e la retribuzione del proprio personale docente. Inoltre il finanziamento dello Stato alle sedi deve essere, almeno in adeguata misura, non piccola, condizionato:
a) dalla produttività della sede nella ricerca e nella formazione delle professioni, continuamente adeguata e aggiornata alle esigenze della società e del mondo del lavoro;
b) dai servizi abitativi, ristorativi, bibliotecari, di
effettivo tutoraggio, di adeguate borse di
studio, di sostegno all'ingresso nel mondo del lavoro ai propri laureati,
offerti dalla sede.
Tutto ciò richiede non solo l'eliminazione del ruolo a vita della docenza e
della progressione economica per anzianità, uguale per tutti, che deve essere
vincolata, invece, alla produttività, al rendimento e all'impegno di ciascun
docente attraverso un contratto individuale rinnovabile, o anche a tempo
indeterminato per docenti di particolare prestigio, ma richiede anche la totale
autonomia delle sedi nell'organizzazione della didattica e dei curricula dei
corsi di studio. Si rende perciò indispensabile l'eliminazione del valore
legale del titolo di studio, che lo stesso Luigi Einaudi ebbe più volte
a proporre, come si rileva leggendo il suo libro "Le prediche
inutili". Oggi con il processo di concorrenza tra le sedi già avviato,
anche se limitato in gran parte all'acquisizione di nuovi studenti,
l'eliminazione del valore legale si rende indispensabile. Le sedi avrebbero
tutto l'interesse ad assumere docenti di prestigio, ad attivare corsi di studio
che offrano una effettiva ottima preparazione professionale nei specifici campi
del sapere e del lavoro e non più, come è stato sinora per diversi corsi
attivati, autentici specchi per allodole, mirati solo a soddisfare gli
interessi di gruppi di docenti nelle facoltà. Come ho scritto al ministro e
alla CRUI, siffatti corsi dovrebbero essere disattivati con un coraggioso
monitoraggio fatto direttamente dalle sedi o, in caso contrario, dal ministro.
Qualche cosa in tal senso si muove. Un recente decreto del ministro ha fissato
precisi paletti per l'istituzione di nuovi corsi di studio. Le stesse regole
dovrebbero essere utilizzate per effettuare un serio monitoraggio dei corsi già
attivati. Con i validi curricula offerti, con i docenti di prestigio
disponibili, con i servizi offerti agli studenti, ogni sede potrebbe imporsi
sul mercato dell'utenza, sui finanziamenti aggiuntivi a quelli dello Stato
richiamati dall'esterno, sui più consistenti finanziamenti statali connessi ad
una seria valutazione del livello di produttività raggiunto dalla sede. La
valutazione dovrebbe essere fatta da un organismo indipendente sganciato
dall'università, dal ministero e dalla politica, il che non è facile da
realizzare in questo nostro Paese dove il conflitto di interessi è ampiamente
diffuso e la politica, i partiti, i sindacati, le forze sociali, le
corporazioni e le lobby sono fortemente e dannosamente invadenti in tutti
campi. Il ministro ha varato l'ANVUR, occorre farla partire subito con
l'obbiettivo di migliorarla e perfezionarla nel tempo. Questa, io ritengo, è
l'unica riforma seria, organica e liberale che può realisticamente
rivoluzionare l'università italiana rendendola fortemente competitiva nel
mondo. Qualsiasi altra riforma, con accesso alla docenza con concorsi comunque
organizzati, con corsi di studio con curricula fissati dallo Stato, sia pure
parzialmente, sarà solo un restyling di facciata. Occorre, inoltre una
autonomia totale anche nell'organizzazione della gestione dell'università con
una "governance" autonomamente stabilita da ciascuna sede che può, a
sua scelta, diventare anche una Fondazione. Questo non significa privatizzare
l'università italiana, come erroneamente e strumentalmente si dice. L'Università
svolge un servizio pubblico-sociale e, pertanto, è sempre precipuo compito
dello Stato finanziarla adeguatamente con fondi pubblici, la cui entità per
ciascuna sede, però, deve essere condizionata alla produttività della stessa e,
quindi, al miglior utilizzo delle risorse finanziarie messe a disposizione
dallo Stato. Occorre porre fine alla proliferazione delle sedi e alla
istituzione di nuove facoltà, vedi il caso abnorme dell'università di Lecce
che, con l'appoggio di politici locali, mira a creare una facoltà di medicina
che va ad aggiungersi alle due, più che sufficienti di Bari e Foggia, già
esistenti in Puglia e alle 37, già troppe, esistenti nel Paese. Una facoltà
che partirebbe dal nulla, condannata per diversi lustri a rimanere nel nulla,
danneggiando peraltro la Facoltà medica di Bari che dovrà aggiungere al
pendolarismo con la facoltà medica di Foggia anche quello con la Facoltà medica
di Lecce.
Con la riforma sopra eposta, si metterebbe fine alla autoreferenzialità e alla
totale mancanza di responsabilità di tutti gli organi decisionali, centri di
spesa o no, delle singole niversità. Solo in tal modo potrebbero convivere
nell'università diverse “anime”, ciascuna con un contratto che fissa specifici
impegni e adeguata retribuzione.
Una siffatta riforma richiede due cose:
1) una forte volontà politica di rinnovare seriamente l'università italiana superando gli enormi interessi diffusi in essa, privilegiando solo gli interessi collettivi e del Paese;
2) ridurre fortemente la reazione di rigetto del mondo accademico, lasciando inalterati diritti, doveri e retribuzione dell'attuale docenza, i cui ruoli vanno messi ad esaurimento dando a ciascuno la possibilità di optare per la nuova organizzazione della docenza a contratto a tempo determinato o indeterminato che, per i docenti di prestigio, potrebbe anche risultare conveniente sul piano economico. Edo ora alcune considerazioni.
Prevarrà la demagogia, prevarranno le lobby accademiche, prevarranno i sindacati e quanti hanno interesse a che nulla cambi? Oppure prevarrà l'interesse collettivo, le esigenze del Paese, la razionalizzazione della spesa pubblica mirata all'efficacia e all'efficienza del suo investimento in tutti i settori? prevarrà la volontà di ridurre gli enormi privilegi, cominciando da quelli della "CASTA POLITICA" a livello nazionale e locale, dei magistrati, dei docenti universitari, della dirigenza, delle diverse e potenti corporazioni esistenti nel Paese, (basta pensare agli intoccabili Ordini professionali)?
Se dovessero prevalere gli interessi generali molte cose si
potrebbero concretizzare. Potrebbero essere eliminati tutti gli enti da tempo
dichiarati inutili, ai quali vanno aggiunte le costosissime superflue province,
potranno essere ridimensionati gli enormi e insostenibili costi della "casta
politica", anche contenendone l'abnorme numero perché oggi "troppi
vivono di politica, pochi per la politica", si avrebbero
amministrazioni più trasparenti e funzionali e servizi più efficienti. Si
potrebbe in tal modo anche ridurre il mastodontico debito pubblico che strozza
la nostra economia. Vedremo cosa accadrà, anche sotto la spinta di una
crescente onda lunga dell'antipolitica dovuta alla diffusa insoddisfazione di
gran parte dei cittadini ormai stanchi delle continue risse politiche non solo
tra destra e sinistra, ma anche nella stessa maggioranza sia di destra che di
sinistra, per la presenza di partitini malamente aggregati che, con i loro
interessi e veti, non consentono di cambiare alcunché in questo Paese. Già
molti anni fa il grande pensatore Gramsci ebbe a scrivere "Questo
Paese ha bisogno di una riforma culturale e morale". Oggi più di
allora tale riforma è necessaria, anzi indispensabile. Da decenni la "Questione
Morale" è invocata a parole da ciascuno, accantonata nei fatti da tutti.
La "Casta", che dovrebbe preoccuparsi della sua sopravvivenza
per l'onda antipolitica crescente che potrebbe sommergerla come uno tsunami, il
riuscito V-day di Beppe Grillo ne è un significativo ammonimento, dovrebbe
necessariamente uscire dalla sua attività mirata solo alla conservazione a vita
delle poltrone e del potere. In Inghilterra vale la regola non scritta, etica,
per cui un premier terminato il mandato esce dalla scena politica, vedi Tachter
e Blair, non si riciclica a vita con i vari governi, passando da un ministero
all'altro o da un ministero ad un ente o viceversa, o da un ente all'altro,
come avviene da sempre in Italia. In quel Paese, e in tanti altri, non vi è
una fungaia di partitini che sono, in alcuni casi, evidenti espressioni di
interessi personali di un singolo personaggio politico, anomalia, questa, solo
italiana.
Auspico e spero, nell'interesse di tutti, che si verifichi una salutare svolta
in tutti i settori, cominciando dall'università che, così com'è, non può dare
quel buon esempio morale e sociale alle centinaia di migliaia di giovani che la
frequentano e all'intero Paese. Dall'università dovrebbe partire, invece,
proprio per i suoi compiti istituzionali ed anche educativi, quel rinnovamento
"culturale e morale" che potrebbe essere trainante per tutti
gli altri organismi dello Stato.
cordialmente
Alberto Pagliarini