RACCOLTA DI ARTICOLI, MESSAGGI E NOTE SUGLI SPRECHI ED I MALI DEL SISTEMA UNIVERSITARIO

a cura del prof. Alberto Pagliarini

 

Questa raccolta, anche se parziale, vuole essere un contributo ad una non piu’ dilazionabile riforma organica del sistema universitario. L’idea della raccolta e’ nata da un messaggio inviatomi dal collega F. Fabris di Trieste il 28/11/02 e dalla mia risposta dell’1/12/02. A monte della raccolta vi e’, per chi ne ha interesse,  la relazione da me tenuta a Roma l’11/4/01, il cui testo e’ reperibile sul sito http://space.tin.it/scuola/alpagli, nella quale ho denunciato i mali dell’universita’, auspicando una autentica  rivoluzione culturale con una proposta di riforma del sistema universitario.

 

 -----Messaggio originale-----

Da: Francesco Fabris      fabris@mathsun1.univ.trieste.it

Inviato: giovedì 28 novembre 2002 15.27

A: alpaglia@tin.it

Oggetto: Spese concorsi

Caro Collega,

 

qualche giorno fa mi son tolto una piccola curiosita', cioe' capire quanto ha

speso finora lo Stato (sia pure tramite i bilanci universitari) per ingaggiare

i docenti secondo le nuove modalita' concorsuali. Non ho trovato questo dato sui giornali, che pur parlano di sprechi ecc., ma puo' darsi che mi sia sfuggito, anche perché leggo gli articoli solo saltuariamente.

La cifra e' a mio parere enorme, soprattutto se si tien conto del fatto che, stando a quello che dicono i giornali, il 95% dei vincitori sono i "candidati locali", che potrebbero a questo punto essere chiamati direttamente dalle facoltà, senza troppi bizantinismi formali.

Si tratta di quasi 63 mln di Euro in 4 anni, cioè più di 15 mln/anno.

Tenuto conto che il recente cofin 2002 ammonta a 133 mln. siamo quasi al 12% del

cofin 2002.

Naturalmente può darsi che abbia commesso dei grossolani errori dovuti alla mia imperizia nell'effettuare stime e/o nel trafficare con i fogli elettronici, nel

qual caso mi scuso per averle fatto perder tempo, ma se non ci sono errori....

ciascuno può trarre le conclusioni che crede.

 

Cordiali saluti

Franz Fabris

 

allegato: analisi dei costi (OMISSISS)

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risposta inviata domenica 1/12/02

caro collega,

il tema sugli sprechi del sistema universitario è molto attuale e trova grande eco sulla stampa. Dei tanti articoli sugli sprechi e sui mali dell'università, pubblicati in questi ultimi anni, mi limito a riportarne solo alcuni recenti, dopo la risposta, riservandomi di aggiungerne altri, successivamente. Il calcolo da te fatto, presumibilmente, non darà l'onere esatto della spesa, essendo i costi diversi per ciascun commissario di concorso. E', comunque, utile perché dà l'ordine di grandezza della spesa ed ha evidenziato, a tuo avviso, uno spreco di risorse per concorsi. Qualcuno ha scritto recentemente sul Sole 24 Ore che questi concorsi, nella gran parte dei casi, sono serviti e servono solo a legittimare una "sostanziale ope legis ad attivazione locale". Giudizio, a mio avviso, alquanto eccessivo, poiché questi concorsi, spesso privi di qualsiasi valutazione comparativa pur prevista dalla norma, hanno, di fatto, consentito quell'avanzamento di carriera, impedito a tanti colleghi che da anni ne avevano pieno titolo. Purtroppo la mobilità è risultata essere solo interna alla Facoltà di appartenenza. Questo ed altri  sprechi sistematici del sistema universitario sono stati e continuano ad essere evidenziati sulla stampa da diversi colleghi. Mi soffermo su qualcuno. Sul Corriere della Sera, recentemente, in un articolo dal titolo "Ma quanti sprechi legalizzati nelle Università", è stato evidenziato il cattivo uso, in non pochi casi, dei finanziamenti per la ricerca, di per sé scarsi.

E' ben noto a tutti il diffuso "turismo scientifico" e l'erogazione di compensi personali attraverso lo scambio di conferenze e seminari, in alcuni casi di utilità pressoché nulla, seguiti da una o due persone, non sempre peraltro direttamente interessate. Queste sono realtà sempre esistite; ora però sono di dominio pubblico perché diffuse e, purtroppo, generalizzate dai mass media. Cresce così sempre più, nell'opinione pubblica, il discredito dell'Istituzione universitaria. L'autonomia, costituzionalmente garantita, andava fatta ma accompagnata da una puntuale, precisa e codificata responsabilità delle strutture e di chi le governa e  vi opera. Oggi Facoltà, Dipartimenti, Corsi di studio, gruppi di docenti e singoli, decidono senza rispondere di nulla, rispettando soltanto le formali procedure burocratiche, con decisioni assunte spesso anche in mancanza del numero legale. Sono così proliferati oltre 3000 corsi triennali con le denominazioni più fantasiose. Sino a qualche anno fa si inventavano nuove discipline, diverse solo nel nome da altre già esistenti, per soddisfare la fame di cattedre e l'espandersi del potere di baronie con un diffuso e incontrollato nepotismo; oggi si inventano costosi Corsi di studio alcuni dei quali si riveleranno una beffa per quei pochi che li frequentano. Il Presidente del Senato qualche giorno fa, in occasione di una inaugurazione di anno accademico,  ha citato il corso di Scienza della Pace, ironizzando sul nome dei futuri dottori: pacifisti, pacieri o pacifici. Ritornando ai concorsi è stato rilevato che il numero attuale degli ordinari, dopo 3 anni di flusso entrante, è ormai di poco inferiore a quello degli associati. Anche il numero degli associati nel frattempo è fortemente cresciuto, ma un pò meno degli ordinari. Gli uni e gli altri tendono ad uguagliare il numero dei ricercatori, rimasto quasi stabile essendo cresciuto in 3 anni di appena un centinaio di unità. Per quanto attiene le figure della docenza l'Università è, quindi, ormai una struttura quasi cilindrica a tre strati sostanzialmente uguali. Di questo passo cosa accadrà tra altri 3 anni? E' auspicabile che il fenomeno si arresti, per evitare il guaio, non facilmente sanabile, di una struttura tronco conica rovesciata. Per fortuna nei prossimi 3 anni, secondo una recente indagine del CNR, il 30% dell'attuale corpo docente va in pensione e il fenomeno dovrebbe almeno in parte attenuarsi. Si continua a dire che il rapporto docenti studenti è 1 a 33, il più basso in Europa. Ciò è vero. Ma i valori medi  hanno senso quando sono noti i valori degli scarti. Nessuno però ha mai calcolato quanti insegnamenti sono tenuti da un docente a centinaia di studenti, oppure, come tutti sappiamo, a uno o due studenti, cosa che si rileva non solo dalla frequenza ma anche, molto facilmente, dal numero di esami fatti nell'anno. Anche questo è uno spreco! E' giusto che la collettività si assuma un onere enorme per fornire un insegnamento a un solo studente? 

In tema di sprechi è ben noto quanto accadeva in alcune Facoltà mediche. In queste, per consuetudine diventata quasi norma, ogni ordinario clinico o chirurgo se non poteva essere direttore di una clinica era considerato direttore della cattedra. A questa denominazione, di nessun valore giuridico, corrispondeva però l'assegnazione di personale, di apparecchiature, strutture e quant'altro occorreva; oppure si creavano, laddove possibile, diverse cliniche distinte, differenziate da un numero, clinica chirurgica I, II, III ..., ognuna con un direttore. I costi di personale e di funzionamento si moltiplicavano. Con gli Statuti di Ateneo sono stati creati i Dipartimenti che già esistevano da anni in altre Facoltà. L'andazzo avrebbe dovuto aver fine. Invece no. In alcune sedi questi dipartimenti risultano essere un insieme di cliniche ognuna delle quali ha conservato la struttura, il personale e quant'altro aveva già in dotazione. E' difficile quantificare lo spreco di risorse che una siffatta organizzazione comporta. E' presumibile sia rilevante.

A tanti sprechi più o meno legalizzati, comunque consentiti dal sistema, si è aggiunta, recentemente,  una congiuntura economica mondiale disastrata che, accoppiata ad una scarsa oculatezza governativa e parlamentare, ha portato ad una insensata riduzione dei finanziamenti anche ordinari, cioè di sopravvivenza per le Università. Ogni sede  si affanna a trovare rimedi per ridurre le spese. A mio avviso è l'occasione buona per ridurre gli sprechi. Qualche Rettore ha pensato di creare commissioni esterne per una valutazione seria, oggettiva e non autoreferenziale, del fare e saper fare di ogni struttura, Dipartimenti ecc., con l'intento di ripartire le esigue risorse dando un premio solo a quelle strutture che si riveleranno più produttive. Ha anche, però, scherzosamente affermato che dovrà, forse, indossare un giubbotto antiproiettile.  Questo è il quadro scuro, certamente non piacevole, dell'Università e non può essere illuminato dalle tante isole di eccellenza per la didattica e la ricerca che pur esistono nel suo interno. Cosa fare? Qualche autorevole collega ha scritto:  non sono le leggi che possono rendere il sistema più accettabile nel suo insieme, perché tutto dipende dai comportamenti degli operatori. Questo è vero! ma è anche vero che occorreranno tempi biblici perché i comportamenti si modifichino in meglio, spontaneamente e naturalmente, in un ambiente deresponsabilizzato. Occorre invece, senza ulteriori indugi, attuare una seria e rigorosa riforma di tutto il sistema, che sia una vera riforma culturale. Occorre ridurre fortemente gli sprechi, attuando un serio sistema di controlli e di valutazioni.

E' da tempo ormai che si parla di controlli e di valutazioni, ma siamo ancora agli albori. Quasi nulla si è fatto a livello locale, poco a livello centrale. Comunque, quel poco è servito anche ad  evidenziare, in modo ufficiale, un insieme di zone d'ombra sulle quali si può e si deve intervenire. Una naturale reazione di rigetto degli operatori, abituati ad una autoreferenzialità non discutibile, non aiuta ad avere le  idee chiare sul come, quando, dove e da chi devono essere fatti i controlli e le valutazioni. Ricordo che il Prof. Giarda, diversi anni fa,- se non erro era Sottosegretario al Tesoro -, produsse uno studio, abbastanza complesso, per una valutazione del sistema universitario a cui agganciare i finanziamenti. Non so che fine abbia fatto. Certamente deve essere agli atti del Ministero. Comunque, occorrerà fissare un insieme di ipotesi, non contraddittorie e coerenti con il tipo di Università e di organizzazione universitaria che si vuole realizzare e, su queste, costruire un modello, eventualmente matematico, di controlli e valutazioni del sistema e delle sue strutture, e applicarlo. L'esperienza acquisita nel tempo consentirà di apportare le opportune e necessarie modifiche migliorative. L'importante è partire. Per far questo è necessaria una precisa e concorde volontà politica, allargata il più possibile. Ma questo, per il nostro Paese politicamente poco normale, è il vero busillis.

cordialmente

Alberto Pagliarini

 

 

Corriere della Sera del 20/11/02  - I FONDI E LA RICERCA

Ma quanti sprechi legalizzati nell'università

LE SPESE  - Convegni sul nulla e corsi senza studenti

 

Con ironia e insieme con durezza Cesare Segre, sabato scorso, ha parlato della ricerca che "rischia di ridursi o cessare, per scarsità di finanziamenti". Ha aggiunto che "la penuria sempre più catastrofica" dei fondi "minaccia" di annullare l'università, per la sordità totale del Ministro Tremonti a questi problemi. Sono parole sacrosante. Ma certo gioverebbe dare a questi appelli, che si sono ripetuti autorevolmente negli ultimi mesi, una maggiore forza morale, se alle sicure colpe dei politici si affiancassero anche quelle (non minori) dei tanti piccoli centri di potere, sparsi nei nostri Atenei, che hanno portato al collasso la  ricerca e l'università.

C'è almeno un ottanta per cento dei magri fondi assegnati a pioggia dallo Stato alle singole Facoltà o addirittura ai singoli docenti che, sotto il pretesto di fantomatici progetti quasi mai realizzati, finisce con il coprire spese personali o per essere utilizzato come moneta di scambio. Da questi fondi si attinge per finanziare cicli di lezioni (disertate quasi sempre dagli studenti) o per organizzare convegni sul nulla, in cui si invitano e gratificano di gettoni di presenza colleghi italiani o stranieri, dai quali poi - per scambio - si è invitati ad altri cicli di lezioni o altri convegni. Di fatto sono soldi per arrotondare gli stipendi o per creare reti di amicizie e alleanze in vista dei concorsi. Uno spreco legalizzato.

Non solo. In regime di autonomia i centri di potere annidati nelle Facoltà come procedono all'assegnazione delle cattedre e nella gestione dei concorsi? Non badano alle reali esigenze didattiche, ma spesso - contando sull'impunità che dà il gruppo mafioso di potere - puntano a un consolidamento di forza inventando insegnamenti per pochi studenti. Si viene così a creare un meccanismo perverso, il quale genera poi - a catena - corsi di studio strampalati. Credo che il grido d'allarme dei Rettori avrebbe più forza e più ascolto, persino presso i politici, se fosse accompagnato da una autodenuncia di queste forme di nepotismo, che uccidono comunque le università e la ricerca, al di là della povertà o della ricchezza dei fondi.

Giorgio De Rienzo

 

 

OGGI del 26/11/02  rubrica DOMANDE DI OGGI - La Società in cui viviamo di Sabino Acquaviva

Se si vuole vincere la crisi l'Università è tutta da rifare

Mio figlio si è iscritto da poco all'università, ma lo vedo scontento. Sembra deluso perché credeva di essere entrato nel fiore all'occhiello della società italiana. Oggi la considera una specie di carrozzone inefficiente. Ha ragione?

Lettera firmata, Bari

 

Capisco la sua delusione. L'università dovrebbe essere il motore dello sviluppo di un Paese e la plancia di comando da cui arrivano a chi governa le indicazioni per stabilire la rotta da seguire. Dovrebbe essere all'avanguardia, inventare il nuovo, farsi apprezzare per le scoperte, tecniche e scientifiche, almeno in settori strategici come per esempio informatica, astrofisica, genetica, nuove espressioni artistiche. Dovrebbe essere il filtro del mondo, assimilare e diffondere il nuovo che sta nascendo. Inoltre, non dovrebbe soltanto insegnare materie specifiche, ma formare gli studenti al nuovo, consentire anche in Italia i grandi dibattiti universitari che guardano all'astrofisica, alla crisi della psicanalisi e del marxsismo, ai progressi stupefacenti delle scienze dell'uomo, a cominciare dalla genetica. Invece, non accade quasi nulla.

Ma quali sono i problemi che, salvo eccezioni, tengono l'università italiana, come suol dirsi, "al palo"? Potremmo parlare, come al solito, della mancanza di finanziamenti, ma almeno in parte ci orienteremmo verso un obiettivo sbagliato. Sì, è vero, per fare ricerca e cultura servono soldi, ma abbiamo anche bisogno di chi li usi bene. Però, non sembra che, salvo importanti eccezioni, i professori siano preparati a svolgere questo loro compito efficacemente. Esistono dei docenti che fanno ricerca scientifica, ma si disinteressano del funzionamento della macchina universitaria. Ci sono quelli che fanno il minimo indispensabile per ricevere lo stipendio. Altri usano il titolo per fare politica con prestigio, o per proporsi come avvocati, medici, o altro, aggiungendo sul biglietto da visita la parola prof.  Il che consente di aumentare le parcelle per esempio per le prestazioni nei tribunali. Infine, non possiamo dimenticare quanti amano la didattica a tal punto da dimenticare il resto, ma farebbero meglio a insegnare in un liceo.

Esiste, quindi, una classe docente alla quale è poco utile far arrivare finanziamenti per la ricerca, spesso non saprebbero o vorrebbero utilizzarli. Ma tutto questo è anche l'espressione di una situazione complessivamente assurda. Per esempio, il professore più bravo è pagato meglio? Assolutamente no, è indifferente se insegna topografia romana antica, con tutto il rispetto per la materia, o fisica di base, se insegna lavorando per un grande istituto di ricerca o in una piccola e improduttiva università di periferia, se studia il genoma o i sentieri di un insediamento dell'età del ferro. Inoltre, molti bravi studiosi spesso si fanno strada lavorando in centri di ricerca bene organizzati. Ma a un certo punto cosa accade?  Vincono un concorso, appunto perché bravi, e quindi se ne vanno: da Milano o Torino, o Padova, o Palermo vengono spediti lontano, a Camerino o a Catania , dove si può fare ricerca in modo validissimo ma non nella materia in cui e per cui si è vinta la cattedra. E così si ricomincia da zero, con una impressionante dispersione di competenze e cervelli.

Ma oltre il problema della efficienza, che riguarda i professori, esiste anche un problema di giustizia, Il titolo di studio, si sa , ha un valore legale uguale per tutti, e quindi nei concorsi il punteggio fa fede. Ma fa fede di che cosa? Un mio collega, dopo aver insegnato tre anni altrove, tornato nella sua università mi diceva: " un 110 e lode in quella università vale un 100 - 105 nella nostra". Risultato? I mediocri finiscono per scavalcare i migliori, con grande gioia di quanti, con un punteggio superiore e una preparazione inferiore, andranno a dequalificare la nostra burocrazia.

Ma tutto questo ha conseguenze devastanti anche sul complessivo funzionamento del sistema, da un lato perché l'università sembra una sorta di esamificio, da un altro lato perché lacune e inefficienza la trasformano in una specie di superliceo che va perdendo per strada le sue funzioni essenziali. A titolo di esempio ricorderò soltanto l'università di Padova: nel Rinascimento e oltre era all'avanguardia nella medicina, possedeva il primo orto botanico al mondo, il primo teatro anatomico fisso e figure di primo piano come Galileo. Ma che dire di Firenze, Bologna e altri atenei storici? Che è rimasto di tutto questo? La nostra struttura universitaria è rigida, in larga misura non competitiva. Ha ragione il presidente del Senato Marcello Pera che, inaugurando l'anno accademico dell'università di Parma, ha osservato che i finanziamenti sono necessari, però servono a poco se la struttura  che deve utilizzarli  è rigida, anzi arcaica.

Dunque, dobbiamo aprire le finestre al nuovo e raggiungere alcuni obiettivi essenziali. Anzitutto: 1) dobbiamo abolire i corsi inutili, non possiamo sprecare risorse per corsi con pochissimi iscritti, su materie strampalate, creati soltanto per servire da trampolino ad alcuni docenti; 2) via libera ad un'ampia privatizzazione per stimolare concorrenza e competizione tra università; 3) dobbiamo regionalizzare le università: chi vince e insegna in Calabria non deve essere costretto ad abbandonare la struttura alla quale era produttivamente inserito; 4) visto che i dottorati di ricerca devono formare i nuovi docenti, rendiamo il dottorato una cosa seria eventualmente, per alcuni anni, affidandone la direzione a professori stranieri di alto livello, provenienti da prestigiose università; 5) infine, anche per fare giustizia, aboliamo il valore legale dei titoli di studio. Chi si laurea sudando in una università importante sarà apprezzato sul mercato per il suo valore e non per il valore che al punteggio attribuisce la legge per i concorsi pubblici. Per chiudere, l'università necessita di una grande riforma, deve aprirsi al nuovo e solo in seguito ricevere i fondi per raggiungere i suoi veri scopi e per produrre i suoi Galileo.

 

 

Corriere della Sera del 5/12/02  Lettere al Corriere - risponde Paolo Mieli

Università - Sprechi infiniti

Caro Mieli, che tristezza. I rettori delle università italiane piangono per elemosinare qualche centesimo. Però io, che in università ci lavoro, vedo sprechi infiniti. Ricevo decine di lettere dal rettore o dal direttore, alcune anche su carta pergamena, completamente inutili. Mai sentito parlare di posta elettronica? Quanta carta, quanti impiegati per un lavoro idiota. E poi, i bidelli. Quelli che conosco sono brave persone, simpatiche. Ma a cosa servono? E poi i colleghi. Almeno la metà dei professori che conosco non fa ricerca scientifica, accademica o industriale che sia, non studia. Costoro fanno qualche lezione e basta. E le lezioni. Io stesso tengo un corso per soli 6 - 7 studenti. Non potrei essere impiegato più proficuamente? Ci sono altri corsi con centinaia di studenti che potrebbero essere sdoppiati. Potrei continuare all'infinito. Che tristezza.

Oscar Casale

Monaco (Germania)

 

Corriere della Sera di mercoledì 11 dicembre 2002

L’OCCASIONE PERDUTA

di  FRANCESCO GIAVAZZI

            Le dimissioni unanimi dei Rettori potevano essere l’occasione per avviare una riflessione seria sullo stato delle nostre università, i cui problemi dipendono solo in parte dalla scarsità di risorse pubbliche che l’Italia dedica alla ricerca.. Anche a questo servono i gesti plateali. Ma se il governo, come pare, chiuderà il caso concedendo qualche soldo in più, e se i rettori si accontenteranno, l’università avrà perso un’altra occasione.

            Restituire agli atenei le risorse che la Finanziaria aveva tagliato significa ricondurli alle condizioni nelle quali si trovavano prima dei tagli: ne vale la pena? A leggere l’ampio rapporto sulla ricerca italiana presentato nei giorni scorsi da Confindustria, e l’analogo studio sulle nostre università, presentato un anno fa, sembrerebbe proprio di no.

            Davvero i rettori pensano che bastino un po’ di soldi in più per cambiare le cose? Le risorse di cui dispongono le università dipendono dal governo, ma la loro organizzazione dipende dai rettori.

            Due fattori, prima ancora dei soldi, sono alla radice dei problemi: la proliferazione delle sedi, che ha distribuito le risorse a pioggia, un po’ dovunque in Italia, e il reclutamento dei professori. Della prima i rettori non sono direttamente responsabili perché le università sono istituite per legge. Ma ciò che essi potrebbero almeno fare è impedire che ciascuna nuova sede replichi ciò che già esiste, spesso a pochi chilometri di distanza. Solo nelle università del Nord esistono 17 dipartimenti o istituti universitari di studi classici (latino e greco) più che in Inghilterra. I dipartimenti di matematica sono 19. Bisogna stupirsi se talvolta i corsi tenuti in queste sedi hanno meno studenti che dita di una mano? E se le biblioteche non hanno i soldi per acquistare i libri? Non ho mai letto di un rettore che abbia deciso di chiudere un dipartimento, accorpandolo a quello di una sede vicina.

            I dati che emergono dai concorsi universitari sono disarmanti. L’89,3% dei nuovi professori

Ordinari assunti tra il 1999 e il 2002 sono candidati interni promossi di grado. La percentuale per i professori associati è il 76%. E il fenomeno non riguarda solo le università del Sud, che devono promuovere gli interni perché pochi sono disposti a trasferirvisi: nella mia università, la Bocconi, le percentuali non sono sostanzialmente diverse. Come ha lucidamente osservato Paola Potestio ( Il Sole 24 Ore, 24 novembre), questi dati “qualificano i concorsi come una grande ope legis , che si è tradotta in una massiccia e incontrollata promozione interna. In soli due anni i professori ordinari sono cresciuti del 10,4% sottraendo risorse alla possibilità di ingaggiare giovani. Su un totale di 74 sedi universitarie, il numero dei professori ordinari è cresciuto in 71 sedi ( con tassi di oltre il 20% in 27 sedi e compresi tra il 10 e il 20% in 21 sedi). Il numero di giovani ricercatori è cresciuto solo in 26 sedi, si è ridotto in ben 40 sedi. Un bel contributo all’invecchiamento dell’università”. Non mi risulta che contro il meccanismo perverso dei concorsi i rettori abbiano mai usato l’arma delle dimissioni di  massa.

            Anche gli istituti di ricerca si lamentano per i tagli che subiscono in Finanziaria. Dalla lettura del bilancio 2001 del Cnr (il Consiglio nazionale per le ricerche) si apprende che l’ente ha destinato a una ricerca su “Roma Capitale” 3,6 milioni di euro. Su un bilancio di oltre 800 milioni , di cui 540 pubblici, sembrerebbe una cifra irrisoria. E tuttavia 3,6 milioni (7 miliardi di vecchie lire) sono quanto basta per istituire , a tempo indeterminato, una cattedra di chimica molecolare, o di tecnologia dei materiali.

            Viene voglia di incoraggiare il ministro dell’Economia , il professor Giulio Tremonti, a resistere ai suoi colleghi, anzi ad accentuare i tagli. Forse i rettori inizierebbero a riflettere seriamente sulle loro responsabilità.

Francesco Giavazzi

Giavazzi_f@yahoo.com

 

 

Corriere della Sera sabato 14 dicembre 2002

L’attacco del “governatore”

“ I rettori sprecano poi si lamentano “

          I rettori delle Università italiane che si sono dimessi per protesta contro il taglio dei fondi alla ricerca previsti dalla Finanziaria li manderebbe tutti a casa. Il presidente della Regione Veneto, il forzista Giancarlo Galan, non contesta la necessità di sostenere la ricerca, ma critica la dispersione dei finanziamenti da parte degli atenei. Spiega Galan:  “ Hanno sprecato fior di risorse creando mille sedi e altrettante cattedre e ora si lamentano e si dimettono. Un esempio? Mi risulta che i finanziamenti serviti per fare l’università dell’Irpinia basterebbero a fare alloggiare gli studenti della Bocconi all’Hotel Gallia di Milano per almeno 16 anni “. Incalza poi il “ governatore “: “ Forse prima di protestare, i rettori italiani dovrebbero andare a guardarsi i loro stessi bilanci “.

 

Da “La Stampa” di Mercoledì 11 Dicembre 2002, pag.5
“Gli atenei spendano meglio le loro risorse”
La Confindustria: : alla ricerca non si può rinunciare. Bisogna eliminare gli sprechi.


di R. Mass.

ROMA - PER il sistema delle imprese, l'università e la ricerca di base sono una priorità assoluta. Se non facciamo ricerca non facciamo innovazione e il nostro sistema produttivo diventerà obsoleto più in fretta di quanto possiamo immaginare». Parla così Silvio Fortuna, imprenditore veneto, consigliere delegato di Confindustria per l'educazione e la conoscenza.

I rettori hanno ragione dunque a protestare?
«Non voglio entrare nella polemica. Non credo che i rettori vogliano più formazione e più ricerca e il ministro dell'Economia invece ne voglia meno. Confindustria dice da anni che l'Italia potrà ancora stare sul mercato solo se avrà una formazione migliore e una ricerca quantitativamente e qualitativamente in crescita, altrimenti non ci sarà innovazione e saremo costretti a produrre cose che sul mercato non avranno collocazione. In sintesi: se non puntiamo sulla formazione e sulla ricerca siamo destinati a impoverire rapidamente».

Sì, ma se non ci sono i soldi come la mettiamo?
«Il mio discorso non è legato a questa specifica Finanziaria. Adesso non si potrà fare altro che trovare un provvedimento purché sia. Però, se questo governo vuole fare una programmazione di medio periodo, la questione dell'università e della ricerca deve entrare nella sua agenda ai primi posti».
Insisto: il problema è la cassa. «Per la questione economica le vie sono sempre le stesse: ottimizzare le risorse che ci sono e trovarne di nuove».

In concreto?
«Parliamo del risparmio. Il ministero, i singoli atenei, i docenti e i sindacati devono farsi un esame di coscienza: ci sono cattedre, dipartimenti, insegnamenti e cadreghini vari istituiti solo per far piacere a qualche barone, o no? E' possibile che in questo paese uno studente possa andare fuori corso tutti gli anni che vuole e l'università gli debba garantire questo "otium"? E' possibile che molti docenti stiano dappertutto fuorché a insegnare? Sono solo esempi, ma è chiaro che l'università può ottimizzare le spese».

In positivo: come trovare altri soldi?
«Già le università hanno una intensa collaborazione con il sistema delle imprese e riescono a trovare molti soldi. Ma se la qualità della ricerca e dell'istruzione migliorano, queste risorse possono aumentare, anche considerevolmente, in quanto verranno alimentate da un mercato che dell'università avrà sempre più bisogno».

Dottor Fortuna, ma che vuole fare? Una università al servizio dell’impresa?
«Per carità, no! L'università che serve al Paese è quella capace di investire - e molto - sulla ricerca di base, anche perché è da lì che arriva la crescita complessiva della conoscenza. Però l'università si trova all'interno di un sistema paese, ed è importante che si possa creare un nesso tra ricerca di base, ricerca applicata, innovazione e quindi produzione. Se questo nesso c'è, i soldi potranno arrivare, anche dal sistema delle imprese. E con i soldi che arrivano le università possono fare le ricerche che vogliono, in piena libertà».

Qual è il primo passo in questa direzione?
«Che il governo punti su università e ricerca, proprio ora che i soldi non ci sono, perché è in momenti come questi che bisogna spezzare l'assedio congiunturale e investire per il futuro».

 

Da “Il Foglio” di Giovedì 12 Dicembre 2002, pag.3
Cari rettori, così non va
Dimissioni? Le università sono improduttive, con o senza i fondi


I rettori delle università italiane si sono riuniti in solenne assemblea e hanno minacciato di dimettersi in blocco se non riceveranno risorse sufficienti dalla legge finanziaria. I soldi, con qualche espediente, si troveranno e alla fine la protesta rientrerà. Tutto bene quel che finisce bene? E' lecito dubitarne. L'università italiana, salve le debite eccezioni, è un capolavoro di improduttività. Secondo le inchieste più recenti l'ottantasei per cento degli iscritti non si laurea, secondo altri rilevamenti invece si perdono per strada "soltanto" i tre quarti degli studenti. Se qualcuno pensa che ciò sia dovuto a una selezione particolarmente rigorosa, si sbaglia. Sempre salvo eccezioni, i laureati italiani sono poco competitivi sul mercato dei cervelli internazionale, studiano molto ma in modo antiquato e disorganico, praticamente da autodidatti che si appoggiano a una istituzione universitaria largamente burocratizzata. Non è neppure vero che questo rubinetto ostruito dal quale escono pochi dottori corrisponde alle esigenze del paese, che infatti ha una media di laureati che è la metà circa di quella dei partner europei.
Se una azienda privata avesse questi livelli di inefficienza i suoi manager sarebbero licenziati senza discussione. Ma i magnifici rettori, con tanto di ermellino, si sentirebbero profondamente offesi se qualcuno li considerasse dei manager. Infatti non lo sono, e se ne vedono le conseguenze, Un misto di demagogia che fa pagare tasse troppo basse (che per i "capaci e meritevoli" citati dalla Costituzione dovrebbero essere pagate da borse di studio), una concezione elitaria dell'università che non si sporca le mani con la committenza del mondo produttivo, un sistema di selezione interna autoreferenziale basato su cordate politiche o professionali intangibili: ecco gli ingredienti principali di questo disastro. I rettori sono la massima espressione di un sistema che intreccia corporativismo accademico e reminescenze sessantottesche. Se si dimettessero perché si rendono conto della catastrofe universitaria, e non per perpetuarla, sarebbe meglio.

 

Dal Corriere della Sera di domenica 15 dicembre -  UNIVERSITA’

LAUREE IN IPOCRISIA (LE VERITA’ SCOMODE)

 

E’ curioso che nel braccio di ferro tra i rettori e il governo sui fondi per le università, nessuno, né da un lato, né dall’altro, abbia preso in considerazione la possibilità di un aumento delle rette, che oggi ammontano a un centinaio di euro all’anno.

            In un sistema davvero equo le rette universitarie sono determinate dal reddito delle famiglie; la retta massima, ad esempio per famiglie con un reddito superiore a 150 mila euro l’anno, potrebbe arrivare a 8 mila euro, la minima zero. Metà del maggior incasso per le università derivante dall’aumento delle rette sarebbe destinata ai loro bilanci, metà a finanziare borse di studio per studenti meno abbienti.

            L’egualitarismo di chi ritiene che l’università debba essere gratuità è una falsità. Ciò che impedisce a una famiglia non ricca, di Caltanissetta o di Sondrio, di iscrivere i propri figli all’università, non è la retta, bensì il costo della vita in una città lontana, priva di alloggi per studenti. E’ sotto questa spinta che sono nate mille università locali, altro inganno per le famiglie disagiate: come se bastasse qualche aula e qualche professore che arriva affannato pochi minuti prima della lezione e alla fine scappa a prendere il treno, per fare un’università. 

            Uno studio recente di Daniele Checchi, Andrea Ichino e Aldo Rustichini (www.iue.it/personal/ichino) mostra che in Italia il reddito della famiglia di origine è un fattore più importante, nel determinare il successo professionale dei giovani, di quanto non lo sia negli Stati Uniti, e ciò nonostante negli USA le scuole buone siano private e molto costose.            

            Giuliano Amato confessò il proprio sconforto una sera, dopo un estenuante tentativo di far quadrare i conti dello Stato: in farmacia un cittadino, arrivato con potente fuoristrada, acquistava un medicinale costoso pagando un ticket di poche lire: “ E’ costata di più la benzina!”, osservò. L’università praticamente gratuita è alla radice dei suoi mali. Quando pagano gli studenti sono attenti alla qualità del servizio che ricevono, non ammettono che i professori arrivino a lezione in ritardo.

            Da anni ormai l’autonomia universitaria consente ai rettori di determinare liberamente le rette, purché esse non eccedano un livello massimo stabilito per legge, ma sono poche le università che raggiungono questo tetto. Il ministro Tremonti potrebbe, nella legge Finanziaria, penalizzare quei rettori che lamentano la mancanza di fondi, e poi non alzano le rette cercando popolarità tra gli studenti (in primis Comunione e Liberazione) con la bugia del falso egualitarismo. Utilizzare, anche interamente, l’autonomia consentita dalla legge non è però sufficiente: per gli studenti più ricchi le rette rimarrebbero comunque irrisorie. E’ necessario cambiare la legge: se non lo fa un governo a parole tanto favorevole al mercato, chi mai? Anche le università private, che pure non hanno vincoli sulle rette, le mantengono troppo basse e poi chiedono fondi allo Stato. All’università Cattolica la retta non supera i 2 mila euro. Alla Luiss, l’università della Confindustria, dove si incontrano studenti in Audi 3000, iscriversi costa 5 mile euro l’anno. Negli Stati Uniti pagherebbero quattro volte tanto.

            Nell’intervista al Corriere  (13 dicembre) il professor Piero Tosi, presidente della Conferenza dei rettori, attribuisce quanto accade da quattro anni nei concorsi universitari – di fatto una grande ope legis che ha promosso todos caballeros – al precedente blocco dei concorsi. Non ricordo che i rettori abbiano mai fatto ricorso all’arma estrema delle dimissioni per protestare contro quel blocco al quale oggi attribuiscono tutte le responsabilità. E’ lungimirante una politica universitaria che cede alle pressioni, pur legittime, di chi oggi ha quarant’anni, impedendo a un paio di generazioni di accedere all’università? ( Su ciò che sta accadendo ai giovani laureati italiani invito a leggere i risultati di una ricerca di Andrea Ichino e di Giovanni Peri, da questi descritta su www.lavoce.info).

            Senza stravolgere il meccanismo dei concorsi pubblici, due semplici norme, da sole, potrebbero migliorare il sistema. Eliminare l’assurdità di due vincitori per una sola cattedra e rendere le decisioni delle commissioni contestabili nella sostanza dei giudizi, non solo nella forma . La prima norma è un controsenso che non esiste in alcuna parte del mondo, ed è alla radice della grande ope legis. Le università che non hanno il coraggio di promuovere le loro  “capre” con un concorso locale (potrebbe accadere che una commissione le bocci) mandano i propri candidati in giro per l’Italia: un secondo posto non si nega a nessuno. La contestabilità solo formale delle decisioni delle commissioni è un vizio tipicamente italiano: purché le carte siano in ordine ogni “capra” è salva. Un po’ di coraggio Ministro Moratti: la seconda modifica è forse complicata, ma per la prima è sufficiente un emendamento di due righe.

            Il professor Tosi si aspetta grandi benefici da un sistema centralizzato di valutazione delle università  che consenta di concentrare le risorse sui dipartimenti migliori. L’esperienza della Gran Bretagna, che da alcuni anni adotta un sistema simile, non è buona. Se si crede davvero nel mercato si deve avere il coraggio di usarlo, non di sostituirlo con meccanismi sovietici di controllo dal centro. Perché i rettori non hanno il coraggio di chiedere piena autonomia nel determinare gli stipendi dei professori? Finché offriranno mille euro al mese a un giovane ricercatore e 4 mila a un professore con studio professionale ben avviato, che frequenta l’università solo per tenere le sue lezioni (magari facendosi ogni tanto sostituire proprio da quel ricercatore), i giovani migliori rimarranno all’estero. Servono entrambi, il professore-professionista famoso e il giovane bravo a fare ricerca, ma è il primo che deve guadagnare mille euro al mese, non il secondo. Al Massachusetts Institute of Technology (Mit) più di un premio Nobel, a fine carriera guadagna meno di un giovane brillante.

            E se, oltre ai soldi, scarseggiano anche i posti, perché mai consentire a parlamentari, presidenti di società dello Stato, direttori di enti di ricerca pubblici, di bloccare per decenni cattedre universitarie mediante il sistema dell’aspettativa? Conosco solo tre persone che, arrivate al secondo mandato istituzionale, si sono dimesse dall’università: l’ex direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, e i nostri due commissari europei, Romano Prodi e Mario Monti.

Francesco Gavazzi

giavazzif@yahoo.com

 

Dal Corriere della Sera – lunedì 16 dicembre 2002 – IL RETTORE DEL SANT’ANNA

Troppi corsi fotocopia lontani dal mondo reale “

 

Pisa – “ Basta con le università fotocopia e sotto casa: costa troppo, disorienta gli studenti e insegna poco. Puntiamo invece alla specializzazione: ogni ateneo deve avere competenze specifiche e offrire un insegnamento di alto livello. In più bisogna realizzare canali di eccellenza, premiare i più bravi, dare loro incentivi. L’università italiana deve essere anche più vicina al mercato e all’impresa ”. Riccardo Varaldo, economista e membro della Conferenza nazionale dei Rettori, è il Direttore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, una delle tre scuole universitarie di eccellenza. Insieme con Normale di Pisa e Sissa di Trieste. Oggi inaugurerà l’anno accademico e il suo discorso sarà una critica al sistema universitario italiano. A fianco avrà Pasquale Pistorio, presidente della Stmicroelettronics, azienda leader mondiale nel settore dei semiconduttori.

“ Fino ad oggi l’università italiana si è sviluppata in quantità – dice Varaldo – per facilitare l’accesso agli studi e creare meno pendolari possibili. Adesso bisogna puntare alla qualità diversificando l’offerta. Inutile replicare in ogni ateneo gli stessi corsi di laurea “. Secondo Varaldo la tendenza a creare sedi distaccate è una pericolosissima involuzione del sistema universitario. “ In una società sempre più europea e globale, nella quale i giovani devono essere abituati alla mobilità e alla flessibilità – spiega – l’università deve garantire soprattutto la qualità della formazione. Semmai bisogna pensare a sistemi per premiare gli studenti più svantaggiati “. Anche la qualità può essre migliorata. “ Le scuole di eccellenza esistenti non riescono a soddisfare tutte le richieste di studenti bravissimi, che sono circa il 15% dei nuovi iscritti, e che non possono essere trattati come gli altri. Allora creiamo percorsi di eccellenza all’interno delle normali università “.

 

Da “Il Mattino” di Domenica 15 Dicembre 2002, pag.7
Il Ministro Sirchia
“Nelle Università regnano lobby, baronie e nepotismo”


Tessuto culturale-scientifico «vecchio, burocratico e segregante, non certo attraente per chi vuole tornare». Il ministro per la Salute commenta le parole di Ciampi, analizza le cause della fuga o del non ritorno in Italia dei nostri cervelli, e indica la ricetta per trasformare il nostro Paese in una calamita per i geni della ricerca.

«La prima cosa che i ricercatori chiedono -ha spiegato il ministro - è che si possano sviluppare in Italia quelle condizioni che ci sono oltreoceano; questo significa per esempio abbattere le barriere che separano settori della ricerca, superare gli sbarramenti universitari, le difficoltà di accesso ai capitali privati. I ricercatori chiedono in sostanza di superare la burocrazia. La seconda condizione - continua - è che chi fa la scoperta sia in parte proprietario e usufruttuario di quell'invenzione che deve restituire qualcosa in termini economici. La terza conclude - è che ci sia un maggiore interscambio tra forze produttive, accademiche e ospedaliere perchè non sia considerato un reato chi lavora nel primo e nel secondo settore».

Sirchia non risparmia le critiche al mondo accademico. «L'esistenza di lobbies e baronie purtroppo non commuove minimamente l'università italiana. Chi ha conquistato una posizione non vuole che nessuno la metta in discussione». «Ci sono direttori e ricercatori - continua il ministro - che non vengono mai sottoposti a verifica; c'è un nepotismo per cui figli di direttori in cattedra vanno in cattedra precludendo l'accesso ai migliori; non c'è meritocrazia, non c'e premio per chi è più capace. E una vecchia società che difende le vecchie cose a scapito delle nuove».

 

Dal Corriere della Sera mercoledì 18 dicembre 2002 - lettere al Corriere

DOCENTI - Le aspettative

 

Nel dibattito sull'università (Corriere, 16 dicembre) si legge che a Tor Vergata i professori in aspettativa sono il 10% almeno. Che è già di per sé dato sconcertante.

Ma c'è di più. Nell'università italiana il docente parlamentare, in aspettativa da 5-6 anni, può anche essere promosso e da associato diventare ordinario. Con la Facoltà che si affretta a  "chiamarlo". Per soddisfare prontamente chissà quale esigenza didattica o  scientifica.

Servono a qualcosa queste denunce? Sono costretto, dalla mia esperienza accademica più che quarantennale, a rispondere no. Come scriveva Augusto Guerriero, in Italia le cose cambiano sempre in peggio. Non è sempre vero. Ma, purtroppo, è spesso vero.

Gabriele Mazzacca

Ordinario di Gastroenterologia

Università Federico II di Napoli

 

 

Da: “La Stampa” – VivereRoma – di Giovedì 19 Dicembre 2002. Pag.4

SANITA’

Il direttore del Policlinico accusa: “I primari boicottano la legge”

Di Raffaella Fabiani

 

Tommaso Longhi: con l’assenso del Rettore cercano di conservare il loro ruolo. Mi domando chi pagherà i danni erariali per questa vicenda e la Corte dei Conti dovrà darmi una risposta

 

 

Tommaso Longhi, direttore ge­nerale del Policlinico, accusa i primari che non vogliono anda­re in pensione di «boicottag­gio». Longhi è direttore genera­le dell'Umberto I dal 1 marzo del 2001. Nel 94 ha ricoperto la carica di direttore sanitario e coordinatore scientifico del­l'Idi, ancora prima è stato vice direttore e direttore sanitario del Bambin Gesù. II Tar ha appena annullato la sua lettera che mandava in pensione venti primari. Ma lui replica: «La firma del protocollo d'inte­sa disciplina perfettamente la materia (riguardo al pensiona­mento dei primari dopo i 67 anni). Le modalità erano da concordare tra Policlinico e Università. Io avevo convoca­to i primari interessati che avevano dato il loro assenso alla riunione prevista per il 4 ottobre scorso. Convocazione poi annullata dal Rettore sen­za nessuna motivazione».

 

Che cosa è successo?

«Contemporaneamente alla pre­sentazione del piano di rilancio del Policlinico ho inviato ai primari una lettera. Chiedevo la loro disponibilità di docenti, una volta andati in pensione come medici».

Risposta?

«Non hanno risposto».

E che cosa significa?

«Che stanno boicottando la legge. Con l'assenso del Rettore, cercano di conservare an­che il ruolo di primari. Di fatto vanno contro la legge. C'e quindi una volontà precisa di boicottare questa legge e mi domando chi pagherà i danni erariali per questa vicenda e la Corte déi conti dovrà darmi una risposta».

Quanti sono i primari che protestano?

«Venti, ma sono compatti. II loro gioco è chiaro: i primari non mi comunicano come voglio­no svolgere la loro attività post pensionamento. Il Rettore non si impone e non mi formalizza l'intesa. E' proprio lui il primo a non rispettare il protocollo d'in­tesa che abbiamo firmato, io, lui e la Regione il 2 agosto scorso, provocando danni incalcolabili all'organizzazione e una conflit­tualità all'interno del Policlini­co. Chi pensa a quelli che devo­no assumere le responsabilità di direzione dei reparti clinici la­sciati liberi? C'è confusione e conflittualità nei reparti. Nessu­no capisce a chi dare retta aggravando di fatto i tanti pro­blemi gestionali del Policlinico».

 

 

 

Da "Il Corriere della sera" di Domenica 22 Dicembre 2002
Scarsa ricerca, corporativismo, poca qualità
INCESTO ALL'UNIVERSITA'


di MARCELLO PERA (*)
(*) presidente del Senato

Caro direttore, il dibattito sull'università che si sta sviluppando sul Corriere è molto importante. Per questo, anche dopo l'approvazione della legge finanziaria, ritengo utile riprendere più sistematicamente alcune considerazioni che ho svolto in varie sedi durante l'inaugurazione del nuovo anno accademico.

Abbiamo, nella nostra università, due esigenze. Una è di carattere finanziario e riguarda le risorse. L'altra riguarda l'intero sistema ed è di carattere ordinamentale. Investimenti e finanziamenti, benché in parte recuperati, non sono ancora sufficienti. A causa di ciò, rischiamo d'imboccare un percorso di decadenza. I dati, infatti, sono sconfortanti: la percentuale dei nostri ricercatori sulla popolazione attiva è di 0,33: circa la metà di quella della Francia (0,61), della Germania (0,61), dell'Inghilterra (0,55). La percentuale del prodotto interno lordo (pil) investito in formazione universitaria ammonta allo 0,63: impallidisce se confrontato con quelle di Francia (1,13), Germania (1,04), Gran Bretagna (1,11).

E questa tendenza viene confermata dalla spesa annua per la ricerca nell'università: in Italia è di 2900 milioni di euro, mentre sono 4900 i milioni investiti da Francia e Gran Bretagna e ben 8 mila quelli che vi consacra la Germania.

Uno dei padri fondatori della scienza moderna, Francis Bacon - un filosofo che poi divenne ministro della Giustizia! - disse che scientia est potentia . Oggi è ancor più vero. Nel mondo postmoderno, un Paese non è ricco se ha tanta manodopera, tante risorse naturali, tanti stabilimenti: un Paese è ricco, o più ricco di altri, se inventa di più, se crea di più, se applica di più i risultati delle nuove ricerche, se dà ai suoi giovani una formazione duttile, agile, critica, in grado di metterli in condizione di cogliere sempre nuove opportunità di lavoro in un mondo che crea sempre nuovi bisogni e professioni.

Maggiori investimenti sono dunque essenziali. E però, una volta rivendicati e in parte ottenuti, occorre essere responsabili sul loro impiego.

La caratteristica principale della nostra spesa universitaria è una sorta di equipartizione delle risorse, naturalmente in modo proporzionale a numero e dimensioni degli atenei. Detto più chiaramente, si spende quasi tutto in stipendi. Questo criterio egualitario però presuppone un'equivalenza delle offerte formative e delle capacità di ricerca. Se tutti gli atenei offrono la stessa formazione con la stessa qualità, ha naturalmente senso la stessa distribuzione delle risorse. Ma è realmente così? Non lo credo e, francamente, non lo vedo.

Da tempo si è pensato che la strada dell' autonomia degli atenei fosse il mezzo adatto e misure si sono prese in questo senso fin dalla scorsa legislatura. Analogamente è stata cambiata la valutazione dei risultati dell'autonomia, da cui dovrebbe dipendere almeno parte del finanziamento pubblico.

Sono personalmente favorevole a queste misure. E però, se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che i risultati sono ancora scarsi. Perché?

Il fatto è che l'autonomia dev'essere finalizzata alla competizione , ma la competizione non può esserci se l'autonomia si trasforma in una licenza per le iniziative più disparate che sono finanziate comunque , se non altro tramite il pagamento degli stipendi.

Quanti corsi, con i titoli più roboanti e fantasiosi e le prospettive più illusorie, si sono aperti solo perché i docenti hanno ritenuto loro convenienza aprirli? Com'è valutata l'opportunità, utilità, redditività culturale, scientifica, economica di queste offerte? Quale politica delle assunzioni dei docenti si è fatta?

L'università è un settore ancora rigido per una serie di fattori che rischiano di trasformarla in un sistema burocratico. Mi sia consentito di ricordarne alcuni.

Abbiamo un localismo dei concorsi: ormai si va dalla tesi alla toga alla bara, tutto nella stessa sede, tutto dietro l'angolo di casa. Con questo sistema, non si producono innesti scientifici, si fanno incesti accademici.

Abbiamo un corporativismo delle discipline: alcuni, pochi docenti la fanno ancora da padrone solo perché più votati in cosiddette «elezioni» dei commissari. Non è chiaro come questa «democrazia» si sposi con quella meritocrazia senza la quale l'università muore.

Abbiamo un tasso elevato di promozioni da docenti di seconda a docenti di prima fascia o da ricercatori a docenti di seconda fascia: si fa prima, si fa in casa e costa poco. E già questo vocabolario delle fasce, ignoto a tutto il mondo occidentale, dovrebbe dirla lunga sul sistema di reclutamento e sullo status dei nostri docenti: andiamo verso il «docente unico» che fa carriera per fasce praticamente di anzianità.

Abbiamo uno scarsissimo reclutamento di giovani a causa di ragioni di bilancio che sono punitive e perverse: un ricercatore grava finanziariamente quanto due promozioni a professore ordinario.

Abbiamo il cosiddetto «3 più 2», il quale, misteriosamente, o fa il 4 di prima, con un allungamento di fatto del triennio previsto, o non fa ancora 5, perché i due cicli finiscono con il dover essere spesi nella stessa sede.

Abbiamo rette basse, con un circolo vizioso: le rette sono basse perché non ci sono adeguate borse di studio per i meritevoli, e non ci sono adeguate borse di studio per i meritevoli perché le rette sono basse.

Un sistema siffatto non è un sistema di autentica autonomia.

L'autonomia vera comporta scelta , la scelta comporta responsabilità e la responsabilità comporta premi ma anche sanzioni . Se invece il sistema non è sanzionato, si produce un' autonomia senza competizione , cioè un'autonomia fittizia. Si cita spesso l'esempio americano. Si dimentica che in quel Paese la competizione esercitata dagli atenei privati, costosi ma efficienti, ha contribuito non poco a rendere competitivi gli atenei pubblici. E si dimentica che tra i migliori atenei - il caso della California lo dimostra - ci sono proprio gli atenei pubblici.

So, per esperienza, prima accademica e poi politica, che il discorso dell'autonomia vera, l'autonomia con competizione e responsabilità, è assai difficile. Ma se docenti e politici non hanno il coraggio di affrontarlo, allora la partita è perduta. Per fortuna, il dibattito in corso aiuta, questa volta, ad essere ottimisti.

 

 

Da "il Giornale" del 23/12/2002
IL SILENZIO SUGLI ATENEI
di Alessandro M. Caprettini

Dimissioni in blocco. Così i rettori delle università italiane qualche giorno fa hanno fatto sapere di voler rispondere ai tagli operati dalla Finanziaria-Tremonti nei confronti degli atenei. Si sa com'è andata a finire: all'italiana. Il Consiglio dei ministri ha rivisto il colpo di scure e tutti hanno potuto mettersi a festeggiare a tarallucci e vino. Sarà anche per questo che a molti è sfuggita un'analisi sul tema, frutto della penna di Francesco Giavazzi. Che non solo è un insigne docente di economia politica alla Bocconi (dopo essersi laureato in ingegneria al Politecnico e avere girovagato ai vertici di  importanti incarichi pubblici e privati) ma che dell'ateneo milanese è stato anche pro-rettore alla ricerca
tra il 2000 ed il 2002. Un uomo che conosce bene quel che era in discussione in quei giorni, dunque. E che, invece che soffermarsi a condannare Tremonti e le sue velleità da boia, ha lanciato un duro j'accuse proprio nei confronti di quei rettori pronti a far decollare nuovi girotondi o comunque a sbattere la porta, offesi dai tagli. Ha raccontato dunque Giavazzi dalle colonne del "Corriere della Sera" che l'acuto malessere dei nostri atenei solo in parte si può attribuire alla carenza di danaro pubblico (che arriva nell'ordine di ben 2.900 milioni di euro l'anno nelle casse delle università della penisola). Mentre è ben altra la malattia che li devasta: l'inflazione.
Non quella provocata dall'arrivo dell'euro -o almeno non solo- bensì quella di cattedre e sedi. Chiarito che sulla dislocazione degli atenei, questi c'entrano poco (visto che si creano per legge), ma che non si capisce bene perchè mai uno studente non possa fare un centinaio di chilometri come accadeva un tempo, Giavazzi ha fatto poi partire una scarica a pallettoni proprio contro i rettori delle università: Sotto accusa, la proliferazione dei professori e, di conseguenza, delle buste paga da onorare. E soprattutto il metodo seguito per arrivarci: concorsi che di fatto nascondono massicce e incontrollate promozioni interne. Ha fatto cifre, dure e scomode, il docente della Bocconi. Ha chiarito che ben l'89,3% dei nuovi docenti ordinari assunti dalle università tra il '99 e il 2002 erano candidati interni
promossi di grado. E ha notato che mentre il numero dei professori nel corso degli ultimi due anni è aumentato del 10,4%, il numero dei ricercatori in più della metà degli atenei si è drasticamente ridotto.
Una riflessione cruda. Una coraggiosa ammissione dell'esistenza di baronie tutte impegnate a salvaguardare i propri interessi. Ce n'era dunque a sufficienza per avviare un discorso serio sulla sorte dei nostri atenei e sul rapporto università-ricerca che da tempo fa discutere. E invece, niente.
Non una replica, non una riflessione sulla provocazione di Giavazzi che giusto ieri ha ripreso il presidente del Senato Pera, dandogli in buona parte ragione e ricordando che occorrono sì "nuovi invesimenti, ma anche maggior responsabilità sul loro impiego", visto che i fondi se ne vanno
quasi tutti in stipendi. Per il resto nulla o quasi. Mentre nei giorni scorsi l'Italia -specie quella
che s'indigna e protesta- era impegnata sul caso Lewinsky. Un diluvio di interventi a favore e contro la sua presenza in tv, una serie interminabile di commenti su una squallida vicenda. Eppure è andata così: tutti a discutere della Lewinsky, nessuno a riflettere sul futuro delle nostre università.
Sarà che da noi si cominciano a preferire le stagiste modello Usa.

 

Da "Il Mattino" del 27/12/2002
UNIVERSITA', L'AUTONOMIA TRA PROTESTA DEI RETTORI E SFASCIO ANNUNCIATO
di Antonio Galdo

C'è qualcosa di vagamente ipocrita nella discussione che si è aperta sulla situazione delle università italiane. Se ne parla come se questa autentica catastrofe nazionale fosse riconducibile soltanto alle responsabilità del governo di turno e del Parlamento. Non è così. I rettori protestano (e hanno ragione) perchè chiedono più autonomia e più fondi. Ma quale uso continuano a fare di queste due risorse? Nel nome della libertà di ciascun ateneo hanno costruito una babele di 2.400 corsi di laurea che appesantiscono i costi e non aiutano gli studenti a orientarsi nelle loro scelte. Ci consentiamo così il lusso di tenere in piedi, tanto per fare un esempio, ventiquattro corsi di laurea in odontoiatria e
altrettanti in psicologia, come se in Italia avessimo bisogno di un esercito di dentisti. Si sono moltiplicate le università di Scienze della comunicazione: fabbriche di giovani che oggi seguono le lezioni di qualche star delle televisioni, schiacciati nei cinema come delle sardine, e domani
andranno a iscriversi nelle liste dei disoccupati. In queste condizioni, la nostra università accudisce un milione di studenti fuori corso (costano, secondo gli esperti, l'equivalente di una manovra finanziaria pesante) e distribuisce "pezzi di carta" a persone che sono vicine, mediamente, alla soglia dei trent'anni. Condannate a restare ai margini del mondo del lavoro. La "caccia allo studente" -che significa più iscritti, più quote dei fondi ministeriali- è un aspetto inquietante, e non secondario, del mondo feudale
e corporativo con il quale sono amministrate molte facoltà. Piccoli regni di un potere accademico autoreferenziale, incapace di mettere ordine al suo interno e di dare un segnale di responsabilità al Paese. Sono ancora più sconfortanti, sotto questo punto di vista, i segnali che arrivano dalla gestione dei concorsi, i luoghi dove, all'interno di commissioni addomesticate e gestite in assoluta autonomia dai professori, si consumano quotidianamente nefandezze. Tutti sanno che i concorsi universitari presentano, come scrive una sentenza della Corte d'Appello di Roma, "una generalizzata mancanza di senso etico e di legalità". Tutti sanno, ma nessuno reagisce. Nè mi risulta che ci sia stata una protesta
altrettanto clamorosa, come le dimissioni in blocco per i tagli della Finanziaria, da parte dei rettori per richiamare l'opinione pubblica sulla gravità degli effetti dell'inquinamento della selezione del corpo docente. Tra il 1999 e il 2002 sono stati assegnati, attraverso i concorsi, 2.346 posti di professori ordinari: il 91 per cento sono andati ad associati delle stesse università che bandivano il concorso. A vantaggio, cioè, di amici, parenti, e protetti vari: senza alcuna valutazione di merito e in barba a
una elementare esigenza di circolazione del personale accademico. Il risultato di una consolidata illegalità e di una prassi clientelare è che si continua ad impedire l'accesso nelle università a nuove generazioni di docenti: un quarto degli attuali professori hanno superato i 65 anni; un nostro ricercatore ha, in media, 43 anni. Anche di questo disastro vogliamo presentare il conto alla signora Letizia Moratti?
E' inutile dire che chiunque frequenti una facoltà conosce, con nome e cognome, i professori che lavorano con rigore e con efficienza, quelli che innanzitutto rispettano i loro obblighi contattuali presentandosi alle lezioni e agli esami: non vorrei, in tutta franchezza, che prima o poi fossimo costretti a considerarli degli eroi.

 

 

 

Dal Corriere della Sera di mercoledì 8 gennaio 2003 - lettere al Corriere - Interventi e Repliche

Ricerca: utilizzare meglio le risorse

 

Mi riferisco all'intervista rilasciata dal segretario generale della CGIL Epifani, il quale prospettava l'introduzione di una patrimoniale per finanziare la ricerca ( Corriere, 29 dicembre). E' convinzione comune che la sfida che oggi ci attende non sia più solo a livello nazionale, ma che la ricerca vada fatta su base europea per fronteggiare economicamente i due colossi americano e nipponico. Le strutture per questo ci sono e sono i centri di ricerca che una volta erano dedicati allo sfruttamento dell'energia atomica finanziati dalla Comunità Europea e dunque anche da noi (ex centri comuni di ricerca atomica), sparsi un po’ ovunque per l'Europa, di cui uno è presente in Italia in provincia di Varese ad Ispra e di cui pochi conoscono l'esistenza. Questi centri di ricerca tutto sono fuorché dedicati alla loro missione : assunzioni clientelari, personale con qualifiche modeste che guadagnano 2000/3000 euro, attrezzature costosissime mai utilizzate, orari del personale ultraflessibili, ecc. Prima di tartassare ulteriormente il sistema economico con ulteriori imposte, proporrei di spendere meglio quello che già spendiamo in ricerca sia a livello nazionale , sia, soprattutto, a livello europeo.

Gianni Veniani

veniani@hotmail.com

 

 

Da "La Gazzetta del Mezzogiorno" di sabato 4 gennaio 2003 - RUBRICHE

Lettere al Direttore 

Il comune senso del pudore a scuola

"Caro comune senso del pudore, ti candido come desaparecido della nostra epoca, in cui sembri scomparso".

Con queste parole Oscar Iarussi iniziava una lettera aperta, qualche tempo fa, sulla Gazzetta del Mezzogiorno, lettera molto acuta e penetrante che, con esempi tratti dalla vita politica e civile, evidenziava un certo immorale costume dilagante.

In noi, che da anni andiamo combattendo una battaglia difficilissima per la moralizzazione della vita accademica, tale lettera suscitò alcune riflessioni pertinenti al tessuto universitario:

pudore vorrebbe che i docenti non iscrivessero i propri figli nella stesa facoltà in cui insegnano, facilitando oltre misura il loro percorso di studi;

pudore vorrebbe che, almeno per la tesi di laurea, tali figli non fossero dirottati presso amici fraterni;

pudore vorrebbe che per costoro non fosse già pronto un "dottorato di ricerca" in maniera che, senza incontrare difficoltà alcuna, questi si trovino già inseriti nel mondo accademico (l'università di Lecce pullula di figli di docenti, "dottori di ricerca" presso docenti amici), mentre tanti altri bravi giovani debbono penare prima di raggiungere un sia pur minimo traguardo, non per mancanza di doti, ma per mancanza di protezione;

pudore vorrebbe che i docenti non facessero a gara a sistemare i loro figli all'interno della istituzione  in cui detengono il potere; se questi figli sono dei genii, che vadano altrove a mostrare la loro bravura;

e non è meno impudico chi avendo ordito una grossa frode ai danni dello Stato, da cui è pagato, frode andata avanti per 30 anni, non sente l'obbligo morale di farsi da parte (ormai in età pensionabile) e continua, invece, disperatamente, a cercare qualche posto di potere per "sistemare" ancora qualche "ancella" e tutto questo con il silenzio omertoso dei detentori del potere stesso;

e quanto pudore c'è in chi, risultando provvista di una laurea conseguita con frode, certamente ben fornita di corazza di bronzo, continua a docere, come se nulla fosse, anzi, aspira a cariche di altà responsabilità?

E non è meno impudico chi, posto ai vertici di tale istituzione, tace?

Un tempo qualcuno scacciò a frustate i mercanti dal Tempio; chi scaccerà gli attuali mercanti da quello che dovrebbe essere il tempio della cultura?

Il comune senso del pudore viene ferito, oltraggiato, vilipeso ogni giorno nell'indifferenza generale.

Dora Liuzzi

Docente di Latino, Università di Lecce

 

Risponde Giuseppe De Tomaso

Gentile professoressa, qualche giorno fa il nostro collaboratore Dino Cofrancesco ha indicato nello statalismo il male chiaro della scuola italiana. Statalismo non significa Stato ( che anzi deve rafforzare il suo impegno per e nella scuola): statalismo vuol dire logica livellatrice, demeritocrazia, clientelismo, nepotismo e via discorrendo. Di questo passo il sistema universitario italiano che si fondava sul valore legale del titolo di studio dovrà arrendersi all'abolizione del valore legale del medesimo titolo. Solo che - a differenza di Luigi Einaudi, sostenitore del modello anglosassone - l'abolizione del valore legale s'imporrà per inerzia, anzi per certi versi si sta già imponendo. Nel settore privato, in parte già avviene: l'oltraggio al comune senso del pudore comporta una sanzione per certi dipendenti provvisti di titoli e tinbri, ma sprovvisti di corrispettive capacità. Non si disperi. Dal male nasce il bene, dicevano gli antichi. Aspettiamo.

 

 

Dal Corriere della Sera del 19 gennaio 2003

PUBBLICO & PRIVATO

Pochi ricercatori in Italia perché l'Università li mortifica

di  FRANCESCO ALBERONI

 

Il presidente della Repubblica, il ministro, i giornalisti, i professori si lamentano che in Italia, rispetto agli altri Paesi sviluppati, ci siano pochi  <<ricercatori>>. E tutti propongono di aumentarne il numero. Ma cosa significa <<ricercatore>> negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia? Uno che studia, che fa ricerca. E quinsi sono <<ricercatori>> i giovani medici di Bethesda, ma anche i professori di Harvard. Gli studiosi dell'Istituto Pasteur e i premi Nobel del Massachusetts institute of technololgy (Mit). Chi sono invece in Italia i <<ricercatori>>? Sono coloro che occupano l'ultimo gradino della scala gerarchica dell'Università.

Il pubblico non sa che, dal punto di vista della carriera, in Italia non ci sono tante Università, ma Una Sola Immensa Università, esattamente come c'è un'unica Arma dei carabinieri. E, nell'Arma dei carabinieri, incominci come tenente, poi diventi capitano e così via fino a generale. Lo stesso nell'Università, dove incominci come ricercatore poi, con concorsi nazionali, diventi associato, infine ordinario.

Il <<ricercatore>> occupa la posizione accademica più bassa, in cui nessuno vuol restare perché non conta nulla, lavora molto e, se non fa carriera, si sente un fallito. Il <<ricercatore>> ha perciò un unico sogno: smettere di esserlo e diventare professore. Ma come può diventarlo? Con l'appoggio di un <<maestro>>. Il <<maestro>> è il padre-padrone dell'Università italiana, l'unico arbitro del successo dell'allievo, del suo reddito, della sua dignità, del suo destino. Se il maestro non fa parte di una potente cricca politico-accademica, se muore, se lo abbandona, l'allievo è finito, non farà più un passo in avanti. Fosse anche il più grande scienziato del mondo, non troverà un altro professore che lo aiuta. Perché tutti hanno già dei figli-allievi da spingere e non possono imbarcare i bastardi di un'altra covata. Chi non è nella lista deve andarsene. Può, naturalmente, emigrare negli Stati Uniti dove guardano alle capacità.

Ma se l'allievo ha assoluto bisogno del maestro, il maestro ha assoluto bisogno dell'allievo. Perché nell'Università italiana tutto si fa con votazioni e, come in politica, comanda chi controlla i voti. Ciascun professore deve perciò mettere in cattedra il numero maggiore possibile di allievi che gli assicurino i voti sicuri grazie ai quali potrà avere un peso nella coalizione politico-accademica che controlla i concorsi. E se l'allievo è mediocre, addirittura incapace? Pazienza. L'importante è che ubbidisca, che voti come gli viene ordinato, che stia alle regole.

L'università italiana non è più, come era nel passato, il vertice dell'alta cultura e della scienza. E' massificata, burocratizzata, livellata. Salvo eccezioni, chi comanda non sono i grandi scienziati, gli studiosi di genio. Ma coloro che controllano i voti ed i concorsi, abili nel piazzare dappertutto i propri uomini. Gente con una mentalità più politica che scientifica. Certo, ci sono anche dei veri maestri che si prodigano per i giovani con talento e vocazione, ma sono sempre più frustrati.

Di conseguenza, finchè il sistema universitario italiano resterà così, tutto il denaro che il governo vi pomperà dentro, servirà solo ad aumentare il numero dei professori prodotti dall'infernale meccanismo elettorale. Non all'insegnamento di eccellenza, non al reclutamento degli studiosi di genio, che amano la scienza e sono destinati a fare grandi scoperte.

www.corriere.it/alberoni

 

 

Una considerazione finale

La raccolta, anche se incompleta rispetto alla enormità degli articoli, note, messaggi pubblicati, evidenzia inequivocabilmente il male "principe" che affligge l'Università italiana: lo statalismo.

Lo statalismo poggia e si sviluppa su due specifici pilastri: il valore legale del titolo di studio e il ruolo nazionale dei professori universitari. Da questi derivano tutti i mali e gli enormi sprechi denunciati nella raccolta. La conclusione è evidente. Nessuna riforma potrà eliminare mali e sprechi se non intacca il male "principe" e i due pilastri che lo sorreggono.

3 febbraio 2003

 

Alberto Pagliarini-